di Emanuele Raco e Eugenio Barone
Quanto conosciamo questo virus e quanto si comporta in modo diverso dagli altri? È più aggressivo di quello che ha provocato l’epidemia in Cina?
È un virus nuovo e lo conosciamo da pochi mesi. Si comporta come gli altri: cerca di entrare nelle cellule viventi, animali e umane, per riprodursi. Non è più aggressivo e non è mutato molto. È lo stesso che ha provocato l’epidemia in Cina e infatti la curva epidemica è perfettamente sovrapponibile in tutti i paesi.
Ci spiega perché non dobbiamo credere a chi sospetta che sia stato creato in laboratorio?
Che questo sia un virus “naturale” lo sappiamo con certezza perché c’è un lavoro dirimente su questo tema pubblicato su Science il 17 marzo. È un lavoro inequivocabile perché analizza i genomi del virus e delle sue varie caratteristiche ed esclude categoricamente che possa trattarsi di un virus artificiale. Che poi ci siano laboratori in cui vengono fatti esperimenti nessuno lo può escludere.
A cosa serviranno i test sierologici?
Potranno servire sicuramente a fare un’analisi, un inquadramento di come il virus si è diffuso all’interno delle varie popolazioni. Il risultato principale sarà capire, avere ulteriori conoscenze su questo virus e comprendere quanto si è diffuso. Noi vediamo solo la punta di un iceberg che in gran parte è fatto di casi non notificati. Cercheremo di quantificare questi casi.
Quando e come potremo raggiungere l’immunità di gregge?
L’immunità di gregge potrà essere raggiunta solo con vaccino, oppure naturalmente. Ma questo significa aspettare molto tempo e avere molti morti. Per cui la possibilità che valutiamo con maggiore favore è quella di convivere e di limitare i danni del virus sino a quando non avremo un vaccino che ci consentirà di raggiungere l’immunità di gregge.
Quanto tempo ci vorrà per avere un vaccino?
Penso che questo vaccino arriverà prima di molti altri. Va considerato che per altri vaccini virali ci abbiamo messo anni, per alcuni come l’HIV non lo abbiamo perché il virus muta e che per l’influenza non abbiamo un vaccino universale ma lo dobbiamo riprodurre di anno in anno. Io penso che sarà così anche per questo virus respiratorio: è probabile che non ci sarà un’immunità permanente ma ci un’immunità più o meno duratura, che andrà rinforzata con vaccini. Ci vorrà ancora tempo. A essere ottimisti penso che potremo pensare di avere una sperimentazione un po’ più avanzata entro l’anno ma per avere un vaccino disponibile a essere somministrato in modo diffuso bisognerà aspettare più tempo.
E perché venga prodotto su larga scala?
Per quanto il vaccino sia un prodotto estremamente sofisticato da un punto di vista tecnologico, oggi la capacità produttiva delle aziende è enorme. Ci saranno difficoltà ma saranno superate.
Perché alcune aree, in Italia e nel mondo, sono state maggiormente colpite? Dai dati in vostro possesso, ci sono elementi che legano tra loro queste regioni? Il virus ha percorso e colpito la cosiddetta “dorsale economica”?
Il problema è stato semplicemente nella capacità di risposta: dove le Istituzioni e le organizzazioni hanno dato una risposta più tempestiva e più evidence based ci siamo difesi meglio, dove la risposta è stata più tardiva il virus si è diffuso, non c’è stata la possibilità di contenerlo ma soltanto di mitigarlo. La differenza è semplicemente nella capacità di risposta da parte dei governi o delle Istituzioni.
Quindi con ogni evidenza c’è stato un ritardo di reazione iniziale.
La Cina ha fatto perdere tempo. Se avessero agito prima delle tre/quattro settimane in cui si è intervenuti avrebbero potuto far meglio sia per loro che per gli altri. C’è stata poi una latenza di reazione da parte del resto del mondo. L’Italia e gli italiani sono stati tra i primi a reagire proprio perché sono stati tra quelli maggiormente colpiti. Non c’è dubbio che un po’ di anticipazione sulle risposte ci poteva essere.
C’è chi teme una seconda ondata in autunno. È una ipotesi reale?
È una certezza. Fino a quando non avremo un vaccino ci saranno nuove ondate o, speriamo, tanti piccoli focolai epidemici che andranno contenuti. Quello autunnale e invernale, come nel caso dell’influenza, è il periodo in cui una combinazione di eventi climatici, comportamentali, immunologici fa si che il virus possa riemergere. Per questo è molto importante non accelerare le riaperture: in caso contrario la seconda ondata invece di averla più avanti rischiamo di subirla prima dell’estate.
La scienza non ha saputo parlare con una sola voce. Perché è successo?
Per fortuna in democrazia tutte le voci hanno legittimità di essere espresse e ascoltate. Non c’è dubbio che questo è uno dei motivi per cui nelle epidemie reagiscono meglio i paesi autoritari. Ma è meglio avere questo tipo di problemi che essere in un regime autoritario.
Dove si traccia la linea di confine in cui spetta alla politica prendere il timone in mano?
In democrazia è sempre la politica, democraticamente eletta, che deve scegliere e decidere. È chiaro che funzionano meglio i paesi in cui la decisione politica è supportata da istituzioni scientifiche efficaci ed efficienti, con persone competenti che le guidano e scienziati autorevoli che lavorano. Dove invece questi meccanismi di alleanza tra politica e scienza sono più fragili, sia perché sono più deboli i politici sia perché sono più divisi gli scienziati, funziona peggio. In paesi come la Corea del Sud, la Finlandia e la Germania, dove c’è una linea di comando unica e un rapporto diretto tra politica sensibile e istituzioni ben funzionanti, le cose vanno meglio, non c’è dubbio.
Le scelte azzardate iniziali di alcuni leader politici mondiali quanto hanno inciso nella diffusione della pandemia?
Possiamo senza retorica dire che sono responsabili degli effetti che ci sono stati sui loro popoli. Se ci sono stati più morti rispetto ad altri è perché le decisioni sono state prese o in modo tardivo o in modo sbagliato. L’esempio più eclatante è quello della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i governi non hanno ascoltato i consiglieri scientifici e hanno reagito in maniera estremamente ritardata.
Come immagina la fase due? Cosa potremo presto tornare a fare e cosa dovremo rimandare a lungo nel tempo?
Fino a quando non avremo una immunità di gregge provocata favorevolmente dal vaccino avremo una lunga fase di convivenza col virus. Speriamo che sia una convivenza di mesi e non di anni, ma ci troveremo di fronte a una nuova normalità. Se verrà gestita bene dai governi sarà una nuova normalità accettabile, altrimenti affronteremo tante continue piccole ondate di epidemia che si alterneranno a periodi di calma. La misura più importante sarà il distanziamento fisico, la distanza tra le persone che non sono certe del loro stato immunologico. Naturalmente questo stato immunologico potrà essere conosciuto meglio e anche tracciato meglio attraverso una diagnostica più estesa e mirata e attraverso l’utilizzazione delle tecnologie. Non c’è dubbio che i paesi che hanno reagito meglio sono quelli che hanno utilizzato meglio le armi della diagnostica e delle tecnologie. Su questo ho invitato da diversi giorni i miei colleghi e i decisori ad agire con più rapidità rispetto a quanto fatto finora.
Ritiene importante l’utilizzo della app per il tracciamento?
Lo ritengo un pilastro essenziale ed insostituibile della fase due. Se non c’è questo abbinamento tra test e tracciamento tecnologico saremo destinati a inseguire sempre il virus. Con questo accostamento saremo in grado di bloccarlo dove emerge e non di inseguirlo dopo che si è diffuso.
La presidente Von der Leyen ha chiesto scusa all’Italia per l’assenza iniziale dell’Europa. Lei come ha sentito l’Europa?
Io l’ho sentita emozionalmente vicina ma razionalmente ritardata. Devo dare atto al commissario per la gestione delle crisi, Janez Lenarčič di essere stato il primo ad attivarsi. Lo stesso può essere detto per la commissaria alla salute, Stella Kyriakidou, il commissario per il mercato interno, Thierry Breton e la commissaria per l’innovazione, Marija Ivanova Gabriel. Sono tutte persone che ci sono state molto vicine. Però l’Europa è fatta di stati membri. Alcuni hanno capito le nostre ragioni solo quando le hanno sperimentate sulla loro pelle. Mentre una istituzione funziona quando capisce e gestisce le emergenze sulla base di una evidenza scientifica. I commissari ci sono stati molto vicini, i paesi membri meno. L’Europa però non è fatta solo di Commissione Europea. In sanità, in modo particolare, è fatta di paesi membri.
Alcuni stati come Francia e Germania stanno velocizzando l’avvio la fase due. In Italia è una richiesta fatta a gran voce dalla Lombardia. È un errore?
La Francia e la Germania stanno facendo qualcosa di diverso rispetto alla Lombardia. La Francia ha detto con grande chiarezza che aspetterà l’11 maggio prima di prendere delle decisioni operative, che monitorerà. Ha annunciato che è intenzionata a fare una serie di cose ma che le condizionerà allo scenario epidemiologico. Lo stesso si può dire per la Germania. Mi pare invece che la richiesta della Lombardia sia di riaprire il 4 maggio indipendentemente dalle condizioni epidemiologiche.
Se lo può permettere?
No, anche perché in questo momento ha una condizione epidemiologica di particolare gravità. Certamente in miglioramento ma di particolare gravità. Tra i paesi europei la Lombardia è la regione che in questo momento ha maggiori problemi. Non l’Italia, ma la Lombardia. Mi sembra non saggio fare delle aperture a prescindere dalle valutazioni oggettive. I paesi che come l’Austria e la Svezia stanno agendo senza tener conto di queste valutazioni penso che pagheranno un prezzo. Lo vedremo nelle prossime settimane.
Il prezzo lo pagherà l’intero paese se alcune regioni tenteranno una fuga in avanti.
Questo è il problema del nostro sistema istituzionale, in cui la Costituzione affida alle regioni questo tipo di decisioni. E i virus non hanno confini. Questo è un discorso che vale per le regioni italiane così come per gli altri Paesi. L’Italia non ne esce se non ne esce integralmente; l’Europa non ne esce se non ne escono tutti i Paesi; il mondo non ne esce se il virus continuerà a circolare. Le persone riprenderanno a viaggiare, a muoversi, a lavorare e ritorneremo alle ondate di cui parlavamo prima. Che sono prevedibili ma non devono essere delle dimensioni della prima e possibilmente neanche peggiori.
L’Italia negli ultimi anni non ha programmato bene il suo futuro. Possiamo dire di non aver avuto uno sguardo lungimirante.
L’Italia non ha proprio programmato, non ha fatto gli investimenti che servivano, non ha premiato l’innovazione, la ricerca, il merito. Lo hanno fatto migliaia di singoli individui, con le proprie forze, che hanno scelto di andare a vivere in paesi dove questo tipo di scelte sono state fatte. Non è un caso se questi sono i paesi che stanno andando meglio. La Germania su tutti.
Cosa possiamo dire agli italiani dopo quaranta giorni di lockdown?
Agli italiani e a tutto il mondo possiamo dire che questo è un evento epocale, che gli scienziati e qualche imprenditore visionario come Bill Gates avevano previsto che sarebbe accaduto. Il mondo si è fatto trovare largamente impreparato, ma pensare di approcciare questo evento epocale con gli stessi strumenti mentali, politici e tecnici con cui abbiamo affrontato l’epoca contemporanea è profondamente sbagliato. Si può parlare di un’epoca pre vaccino e una post vaccino coronavirus. Fino a quando non avremo un vaccino saremo costretti a nuove ondate virali, speriamo non epidemiche, che dovranno essere costrette. Per questo c’è bisogno di collaborazione tra scienza e politica e tra scienziati e governi di tutto il mondo.