di Maurizio Cuzzocrea e Emanuele Raco
Il 18 aprile 1948 ebbero luogo le prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana, a cui partecipò il 92% degli elettori. Cosa rimane di quella fase di grande partecipazione alla vita democratica? Perché i cittadini disertano sempre di più le urne?
Nessuna delle elezioni politiche successive è paragonabile a quelle del 1948. Basterebbe chiedersi che ne sarebbe stato della storia dell’Italia se le posizioni della DC e del PCI fossero risultate invertite, o anche solo se il divario a favore della DC non fosse stato di 18 punti. De Gasperi fu il vero vincitore sotto ogni profilo (elettorale, politico, strategico e morale) e ne risultò consacrato come il vero padre della repubblica e tra i maggiori statisti del novecento. Ma anche il leader del fronte opposto, Palmiro Togliatti, esce da queste elezioni (si dice che sia stato sentito dire: “è andata bene così”) con indubbia altezza, per aver saputo gestire con autorevolezza e forza, la sconfitta e la frustrazione del suo elettorato che poteva essere definito “un popolo”, un popolo dentro al popolo. Non si dimentichi mai che nei mesi precedenti le elezioni, contrassegnati da tensioni, incidenti, scioperi e incertezza del risultato, si sentiva parlare di “rischio Grecia”, cioè di rischio guerra civile. Se ciò non si è verificato è stato sicuramente merito dell’intelligenza storica e dell’abilità politica del vincitore, ma anche della tempestiva e determinata scelta del perdente di riconoscere senza incertezze il risultato, a costo di gravi incomprensioni nel suo partito e nella “casa madre” sovietica. Basta questo per comprendere l’unicità di quelle elezioni.
Poi fortunatamente la democrazia si è consolidata, è diventata anche per il popolo italiano costume e civiltà, se si vuole anche consuetudine; le grandi ideologie capaci di forti mobilitazioni sono scomparse, le fasi di drammatiche tensioni alimentate probabilmente da gravi interferenze internazionali, come quelle dei tentati golpe e del terrorismo, furono domate e vinte, il Muro che divideva l’Europa e la società italiana venne abbattuto e, dunque, l’Italia ha cominciato ad assomigliare progressivamente alle altre democrazie occidentali, a partire da un certo rilassamento dell’etica civile in cui siamo soliti comprendere anche il dovere della partecipazione elettorale e politica.
In quelle elezioni ci fu una mobilitazione senza precedenti, per intensità e capillarità, delle organizzazioni cattoliche, sostenuta dalla paura della vittoria del comunismo in Italia. Oggi non è più pensabile quel tipo di intervento politico, ma non crede che l’attuale forte e diffusa mobilitazione dei cattolici in ambito umanitario e sociale, soprattutto nei confronti delle emergenze dovute alla crisi economica e alle migrazioni, siano la nuova modalità con cui si manifesta un desiderio di incidere sulla vita politica del Paese? Può essere una sfida per la costruzione di nuove proposte politiche in linea con quella che è chiamata “l’economia di Francesco”?
Ci fu sicuramente una grande mobilitazione della Chiesa italiana, perché dall’altra parte c’era un avversario particolarmente insidioso, l’ateismo politico, un partito cioè che conservava legami organici con la patria dell’ateismo di stato, l’URSS: non si capisce l’atteggiamento della Chiesa se si prescinde da questa valutazione. I cattolici si sentivano motivati alla lotta politica proprio da questo rischio. E misero a disposizione della Democrazia cristiana non solo i loro voti, ma le loro migliori intelligenze, che si rivelarono ben presto, già all’Assemblea Costituente, una vera e propria eccellenza del paese.
Nei decenni successivi, quando la democrazia sembrava non correre più rischi, e neppure la libertà religiosa, il sistema andò progressivamente polarizzandosi attorno a una dialettica destra/sinistra e la base cattolica cominciò a manifestare il proprio disagio. Disagio accentuato dalla crisi morale in cui precipitò la politica italiana tutta, compresi i cattolici, all’inizio degli anni novanta. Del resto a metà degli anni sessanta il Concilio ecumenico Vaticano II aveva detto parole chiare e definitive sulla libertà di opzione politica per i credenti. La diversificazione di voto tra i cattolici diventa in tal modo esperienza concreta, ma anche esperienza non di rado di imprevista delusione per l’impossibilità di vedere riconosciuto dalla politica il valore “dei propri valori”, soprattutto nelle cosiddette materie eticamente sensibili. Anche per questo si è verificato un significativo allontanamento, in particolare delle nuove generazioni di giovani credenti, dall’impegno politico e un sempre più percepibile “ritirarsi” nello spazio, pur virtuoso, della carità, cioè delle esperienze di solidarietà umana. I poveri, gli immigrati, gli ultimi e i penultimi, i fragili e i vulnerabili, sono diventati il terreno di lavoro e testimonianza del proprio essere cristiani.
Personalmente, pur apprezzando moltissimo questo lavoro a fianco dell’umanità dolente e vilipesa, e riconoscendo che esso rappresenta il terreno di elezione dell’impegno dei credenti perché quello è luogo teologico prima ancora che sociale, penso che – al di là delle intenzioni – rappresenti anche un passo indietro rispetto alla responsabilità che ogni cittadino deve sentire verso il proprio paese, il mondo e la storia. Disporre di un terreno di riserva rispetto a quello della politica, può rappresentare infatti una tentazione e forse anche un rischio per i credenti: quello dell’allontanamento dallo Stato. “Bisogna amare lo Stato” esortava Aldo Moro, e “bisogna amare la Costituzione” aggiungeva Giuseppe Dossetti. Non è consueto l’uso del verbo amare quando si parla di istituzioni, ma per i cattolici è importante perché evoca il comandamento dell’amore del prossimo. Se fossi più giovane mi dedicherei a recuperare alla politica parte di queste energie morali che se ne sono allontanate. E se ne vedono gli effetti, purtroppo.
Nei primi anni della democrazia italiana, la DC faceva un largo uso, nella comunicazione politica, di richiami alla religione cattolica. Oggi c’è chi fa un uso dei simboli religiosi nella ricerca del consenso politico. Quali differenze ci sono? Pensa che questo atteggiamento abbia un riscontro positivo nel clero e nel laicato italiano?
C’è grande differenza. I capi della DC normalmente andavano a Messa quotidianamente ma in pubblico non facevano riferimento alla Chiesa o ai temi religiosi, salvo alcune eccezioni come Giorgio La Pira o Igino Giordani, sia perché consideravano il valore dell’autonomia – che è più ampio rispetto a quello della laicità – una conquista irrinunciabile da Sturzo in poi, sia perché sapevano che la fede non si poteva utilizzare e strumentalizzare. Diverso invece era l’impegno della Chiesa per educare al rapporto fede-politica e, talvolta sbagliando, per indicare l’opzione preferenziale a favore della DC, diciamo sino alla stagione del Concilio. Ma da parte dei dirigenti DC si difendeva sempre il carattere aconfessionale del partito e il valore della laicità (che è cosa diversa dal laicismo) della politica. Nel Congresso di Napoli del 1962, in cui venne deciso il passaggio dal centrismo al centrosinistra, il segretario Aldo Moro resistette alle pressioni contrarie della CEI di Siri, usando proprio questo argomento: “l’autonomia è il nostro modo di servire, se possibile, la Chiesa”. Dunque, niente di paragonabile ai rosari e le madonne di Salvini. Quella è simonia, cioè peccato. E’ roba da Orban che considera la religione un amuleto elettorale.
Nel secondo dopoguerra si viveva una fase di scelte decisive, che avrebbero segnato il futuro del Paese. Quale fu la capacità dei leader politici che uscirono vincitori dalle elezioni del 1948 di rendere chiara la richiesta di fiducia nelle scelte di collocamento internazionale dell’Italia?
Beh, la collocazione internazionale dell’Italia ha rappresentato sino ai primi anni settanta il vero discrimine della politica italiana: Occidente, Nato e CEE. Epperò è giunto il momento di guardare a quelle scelte con sguardo storicamente più oggettivo. Possiamo dire che il primo strappo di De Gasperi avviene con la rottura del governo tripartito nel 1947. Fu vero strappo? Il presidente dell’Istituto Gramsci, il prof. Beppe Vacca, commentando un famoso articolo su Rinascita di Giorgio Amendola, in cui recensiva il testo di Pietro Scoppola “La proposta politica di De Gasperi”, suggeriva l’idea che De Gasperi e Togliatti avessero in qualche modo pilotato insieme la rottura. Se è vero, infatti, che De Gasperi non poteva presentarsi alle elezioni del 1948 essendo ancora alleato dei comunisti, non è men vero che pure Togliatti aveva la stessa esigenza. Tant’è che anche dopo quella rottura i paralleli lavori dell’Assemblea costituente proseguirono con lo stesso spirito di collaborazione e convergenza.
Tutto ciò che accadrà in seguito sul piano internazionale è frutto di quella scelta di campo, che veniva dalla spartizione di Yalta, dall’esito della Conferenza di Pace di Parigi dove le richieste di De Gasperi vennero sostenute dagli USA, dal Piano Marshall, oltreché dalla profonda convinzione del capo del governo italiano dell’opzione occidentale. Da lì le scelte successive dell’adesione alla Nato (fortemente contrastata dalle sinistre interne al partito, quella dossettiana, in particolare, ma anche quella gronchiana e quella sindacalista) e quella europeista, che ha rivelato l’autorevolezza internazionale e la capacità di visione di De Gasperi.
Oggi gli scenari geopolitici sono cambiati, ma l’Italia ha ancora una forte collocazione euro-atlantica o stiamo perdendo le relazioni con gli alleati storici? Le influenze della Russia e della Cina sono in grado di condizionare gli attori della scena politica nazionale?
Diciamo la verità: da anni la politica internazionale è scomparsa dal dibattito pubblico italiano. Mancano statisti di “visione”, purtroppo non solo in Italia, e si ha l’impressione che la politica insegua ciò che accade. L’Italia ha avuto un ruolo importante soprattutto nel bacino del Mediterraneo, ma anche in Europa, da De Gasperi fino a Craxi, poi, in particolare dopo la caduta del Muro e l’avvento della globalizzazione, ci siamo accontentati di sedere sugli spalti, abbiamo perso interesse e ambizione a giocare un ruolo. Ma sugli spalti si assiste allo spettacolo di altri e al massimo si diventa tifosi. Ecco, il rischio di diventare tifosi di uno o l’altro dei grandi player internazionali oggi è molto grande. Non comprendiamo che il nostro destino, la nostra missione è quella di rigenerare e – se vogliamo – reinventare l’Europa, l’unica prospettiva seria per il futuro del nostro paese e del mondo. Un mondo senza Europa tornerebbe ad essere un luogo di scorribande e di guerre. Questa volta ancora più “mondiali”.
Cosa ha rappresentato De Gasperi per la politica italiana? E’ stato dimenticato troppo presto? La sua capacità di chiedere e ottenere credito e sostegno per l’Italia sarebbe utile all’Italia di oggi?
Potremmo dire anche che De Gasperi è stato riscoperto troppo tardi. Il suo è stato infatti un destino molto particolare, dal punto di vista storiografico. Per lunghi anni una cultura fortemente ideologizzata non dico che avesse rimosso, ma certamente ha operato una intenzionale devalorizzazione del suo ruolo, che è durata sino al libro di Scoppola del 1977. Parliamo di un vero padre della Patria, sia quella italiana che quella europea. Ha,infatti, pacificato il paese, costruito nei fatti la sua unità che era stata conquistata un secolo prima con il Risorgimento ma mai effettivamente realizzata, ha ricostruito le basi materiali di un’economia che era stata distrutta dalla guerra, ha dato corpo alle strutture istituzionali della nostra democrazia, ha domato le spinte integraliste inventando e, in una certa misura imponendo, alla DC lo spirito coalizionale dopo le elezioni del 1948, ha resistito alle pressioni anche vaticane di rilegittimare politicamente, in un tempo assolutamente non maturo, le spinte fasciste attraverso la cosiddetta ”operazione Sturzo” a Roma nel 1952. E, dopo la caduta del governo francese Pleven con la conseguente uscita di scena di Schuman, fu lui a guidare il gioco della costruzione di una nuova Europa politica lavorando sullo Statuto CECA, proponendo prima l’emendamento all’art. 36 per la costituzione della CED e poi il sub-emendamento per l’elezione di un’Assemblea costituente degli Stati Uniti d’Europa. In quel tempo riuscì certamente a negoziare anche consistenti aiuti internazionali per la ricostruzione del paese, sfruttando la sua autorevolezza, oltreché la collaborazione di strutture diplomatiche, quella italiana e quella vaticana, di assoluto livello. Ma erano oggettivamente altri tempi.
Per la prima volta gli italiani non saranno in piazza per celebrare il 25 aprile. Cosa possiamo fare perché rappresenti ancora una data fondamentale del calendario politico? Come possiamo alimentare le radici della nostra democrazia?
Sì, questo è un fatto molto triste, lo dico anche come presidente della Fondazione Fossoli. Ma confido che i media consentano di ricostruire un clima di memoria adeguato. Bisogna dire che negli ultimi anni tante manifestazioni erano diventate un po’ un’abitudine. La situazione particolare della ricorrenza di questo settantacinquesimo anniversario, potrebbe aiutarci a recuperare il significato genuino della celebrazione. La Resistenza va ricordata infatti non solo per il suo indiscusso valore militare di lotta all’invasore straniero e al suo alleato italiano, ma anche come esperienza di generazione del pensiero del domani. Di un dopo. Di una speranza. Della libertà, della democrazia e della pace.
La pandemia di oggi sta mettendo tutti a dura prova e rischia di toglierci il pensiero di un dopo. Invece il dopo ci sarà. In genere diciamo che sarà diverso dal prima, ma non sappiamo come sarà. Allora, sull’esempio dei giovani partigiani, mettiamoci subito all’opera per pensarlo e costruirlo. Sono abbastanza sicuro che nascerà una nuova fase costituente di un mondo diverso. Mi auguro che le nuove generazioni si lascino sedurre da questa prospettiva.
Lei è stato l’ultimo segretario del PPI. E’ stata un’esperienza determinante per avviare il percorso che ha portato all’Ulivo e poi al Partito Democratico. I cattolici come hanno vissuto il passaggio dalla DC alla seconda repubblica? Che cosa resta oggi di quella tradizione nella politica italiana?
Resta un pensiero che nei suoi punti di fondo non è superato: la libertà come valore irrinunciabile (non sembri scontato, se pensiamo ad Orban e altri o alle tante possibilità più o meno subdole di controllo favorite dalle nuove tecnologie), la centralità della persona, l’uguaglianza delle persone, la fraternità, l’attitudine al dialogo e alla mediazione, l’economia sociale di mercato, un’ecologia integrale, l’Europa, la pace a ogni costo. E resta ancora una parte importante di personale politico “educato” a questo modo di intendere la politica e la storia dell’umanità.
Le continue scissioni stanno minando lo spirito unitario che aveva caratterizzato la nascita del Partito Democratico. Al di là delle riflessioni sui numeri e sul consenso, pensa che le culture politiche che hanno dato vita alla Costituzione debbano tornare a dividersi o c’è una via per un percorso unitario che fermi l’ascesa dei populisti e dei sovranisti?
Le divisioni sono la causa e l’effetto della crisi della politica. I partiti sono un mezzo e non un fine e, dunque, non c’è da scandalizzarsi se si trasformano, si dividono, scompaiono e vengono sostituiti. Ma è il rifiuto della mediazione, dell’impegno a trovare un punto di compatibilità e condivisione, di progetti comuni, che mi preoccupa. Siamo di fronte alla malattia più grave della politica e, su più vasta scale, della società. Forse, ma non ne sono sicuro, l’esperienza di sofferenze e lutti che stiamo vivendo potrà trasformarci, in meglio. Rileggiamo la Costituzione, rileggiamo Manzoni, rileggiamo Primo Levi. Recuperiamo l’ambizione di un disegno per il futuro. E poi ripartiamo, anzi ricominciamo.
La sua regione è una delle più colpite dal coronavirus eppure non è assurta ai clamori delle cronache. Perché? Come sta vivendo questa fase dell’emergenza? Come trascorre le sue giornate?
Sì, anche l’Emilia Romagna, è stata colpita fortemente dal virus. Non facciamo notizia perché, forse, fino ad ora non si sono manifestati casi clamorosi di focolai apparentemente indomabili o di strutture particolarmente contagiate e contagiose. Oppure perché il sistema mostra di riuscire a reggere. Oppure infine perché, forse proietto un mio pensiero ma conoscendo il presidente Bonaccini forse no, stiamo già pensando come riorganizzare il nostro sistema sanitario.
Come passo il mio tempo? Come la maggioranza dei cittadini, in casa, davanti al computer, al telefono, o a leggere, scoprendo nella libreria una smisurata quantità di libri depositati e non ancora letti.
Continuando a sperare, senza particolare angoscia peraltro, che il maledetto non bussi alla mia porta.