La festa del primo maggio quest’anno coincide con il primo tentativo di ripartenza del Paese dopo due mesi di chiusura pressoché generale. Anche se molte fabbriche non hanno mai interrotto l’attività. Come è possibile garantire in queste condizioni la sicurezza dei lavoratori? Quanto e come la formazione può ridurre i rischi?
Se pensiamo ai protocolli che abbiamo condiviso nelle aziende, prendiamo a modello quello Ferrari ma anche molte altre, CNHI, FCA. I Protocolli puntano sulla salute dei lavoratori come valore imprescindibile e mirano a costruire un progetto che parta da quanto sottoscritto il 14 marzo da Cgil, Cisl e Uil, associazioni datoriali e governo, per andare oltre, sviluppando ulteriori passi avanti con i nostri rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e le strutture territoriali. Come in tutti i Protocolli che abbiamo firmato nel gruppo Fca, c’è anche una grande responsabilizzazione del ruolo individuale, dove ovviamente anche la formazione e l’informazione hanno un ruolo determinante; inoltre si tratta di protocolli di facile implementazione, dotati quindi di una scalabilità che li rende idonei anche alle aziende più piccole. In ogni caso, fondamentale da ora in avanti sarà avere comitati territoriali. Riaprire in sicurezza significa farlo garantendo innovazione e partecipazione, insieme da sempre garanzie di salute. Abbiamo aziende che sono avanzatissime: pensiamo alla DeWalt Industrial Tools del Gruppo Stanley Black & Decker, azienda a Corciano alle porte di Perugia, partita a fronteggiare la pandemia il 29 gennaio, dove siamo alla fase 3 perché appunto si cerca una migliore normalità (new better) in cui essere più forti.
I partiti si sono divisi sui tempi della ripartenza delle attività produttive. Si poteva fare di più, prima, meglio?
Non si può trattare un Paese allo stesso modo. Ci sono zone che sono state chiuse salvando vite e bloccando il contagio, altre in cui la pressione di alcuni industriali ha impedito rapide politiche selettive e restrittive. Nella gestione di una pandemia bisogna far presto, far bene e avere uno Stato moderno, semplice, capace di rendere operative le decisioni. La politica non conosce né il lavoro né le fabbriche, che sono ormai in larga parte aperte grazie alla comunicazione ai Prefetti. Finita l’emergenza sanitaria bisognerà tenere alta la guardia sul contagio e mettere in terapia intensiva la nostra economia reale, che in molti casi si ritroverà pregiudicata. La politica ha proclamato la guerra alla burocrazia in questi giorni. Bene, vediamo chi la proclamava con i fucili a tappi, dimostrando di accogliere immediatamente le proposte di Cottarelli e altri contenute nel documento “sconfiggiamo la burocrazia”.
Questa emergenza sanitaria determinerà una contrazione della capacità produttiva? In che misura rispetto al 2008 e quanto tempo ci metteremo per recuperare, per tornare ai livelli pre-crisi?
L’impatto del virus sul mercato è di portata devastante, anche se ancora non ben quantificabile sia sulla domanda che sull’offerta, non solo perché la Cina è al contempo un mercato e un fornitore ma perché stiamo paralizzando il nostro sistema industriale. La crisi del 2008 ha spazzato via 600.000 posti di lavoro nell’industria e il 25% del tessuto produttivo. Fatta eccezione per il triangolo d’oro Varese-Treviso-Forlì, nel resto d’Italia il tessuto economico industriale si è sfaldato mentre da quelle 3 regioni dipende il 40% del Pil italiano. Il danno economico ascrivibile alla pandemia andrà in qualsiasi caso ad aggiungersi a quello della crisi e gli effetti maggiori si riscontrano proprio nel cuore del triangolo virtuoso, quello che aveva continuato a investire, innovare, trainare il nostro export grazie soprattutto alla meccanica strumentale. La vecchia normalità, confortevole per i più, è quella che ci ha portato a questo disastro. Ne usciremo se sapremo costruire un approdo ad una “nuova normalità” che faccia tesoro di ciò che non ha mai funzionato o non funziona più e che bisogna smettere di prorogare.
La mancata modernizzazione ha obbligato il Paese a recuperare in poche settimane un ritardo decennale rispetto ai paesi più industrializzati. Solo in seguito alla pandemia in Italia si è diffuso il lavoro agile. Perché tutti i governi hanno fallito la sfida della semplificazione? Come progettare il futuro anticipando il cambiamento?
Non mi iscrivo all’esercito del “l’avevo detto”, ma certo chi si è preparato meglio al cambiamento ora affronta questo momento con maggiore agilità. Questo periodo è ricco di insidie ma anche di opportunità e capita nel bel mezzo di tre grandi trasformazioni epocali dettate dalla tecnologia, dai cambiamenti climatici e dalla demografia. Dipenderà come sempre da noi, dalle scelte che faremo. Il lavoro sarà però l’epicentro di questo grande cambiamento. Vi sarà una grande spinta alla robotizzazione e all’automazione, ma non per questo necessariamente si perderanno posti di lavoro se l’uomo resterà al centro di questa trasformazione. Salteranno le gerarchie verticali. Verrà messo in discussione il rapporto prestazione/salario, sostituito da un rapporto tra progetto/benessere del lavoratore, cambieranno i tempi e gli spazi di lavoro. Per questo oggi più che mai servono persone che abbiano visione e capacità progettuali. La rappresentanza sindacale sarà da ripensare, ma non per questo sarà meno centrale.
I sindacati in Italia vengono accusati di essere un elemento di freno più che di stimolo alla creazione del lavoro, come se mirassero soprattutto a garantire chi il lavoro lo ha già piuttosto che aiutare chi lo cerca o prova a crearselo. Quanto c’è di vero?
Poco nel senso che al sindacato vengono attribuiti spesso poteri che non ha e di conseguenza anche responsabilità. Tuttavia, questo diventerà vero se non si saprà interpretare l’epocale cambiamento in atto che l’attuale emergenza sanitaria sta notevolmente accelerando. Tra qualche anno molti dei lavori che oggi conosciamo non esisteranno più, altri saranno creati. La sfida è quindi traghettare il lavoro organizzato dentro le nuove realtà. Senza nascondere che oggi le grandi piattaforme tecnologiche come Google, Apple e Facebook sono “union free” e che in molte delle imprese più avanzate il ruolo del sindacato è marginale. Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare di essere messi all’angolo. In queste trasformazioni il ruolo del sindacato diventa determinante, non solo come protettore del posto di lavoro, ma anche come promotore delle competenze del lavoratore del futuro: da job protector a skill developer, deve cioè occuparsi dello sviluppo della professionalità del lavoratore facendo diventare la competenza moneta intellettuale al pari del salario.
Quanto è costato all’Italia aver bocciato il piano Industria 4.0? L’automazione avanzata riduce o aumenta la domanda di lavoro?
Molto ed ecco il perché: nel Piano Industria 4.0, per fare un esempio, si parlava di formazione 4.0, cioè caratterizzata da evolute metodologie che integrino aule, formazione continua digitale a piccole dosi (da due a 5 minuti al giorno) con app dedicate, laboratori esperienziali e simulazioni, coaching, eventi. Insieme a Skilla, di Franco Amicucci, abbiamo lavorato su questo fronte e inserito delle proposte anche nella piattaforma del nuovo contratto dei metalmeccanici. I governi italiani degli ultimi vent’anni sono stati molto carenti in questo senso, tranne qualche rara eccezione come il Piano Industria 4.0 e dei provvedimenti sull’alternanza scuola-lavoro. Mi sono occupato di innumerevoli vertenze negli anni della crisi. Solo nel mio settore sono stati persi oltre 600mila posti di lavoro. I fattori sono innumerevoli ma è stata determinante l’assenza di investimenti nelle nuove tecnologie. Per invertire la rotta servono investimenti, ma soprattutto un cambio di mentalità, ad esempio con un grande piano di reskilling. In questo senso la formazione e l’educazione saranno fondamentali. E’ l’assenza di tecnologia che fa perdere posti di lavoro non la sua presenza. Il lavoro industriale, specie nelle versioni di “ibridazione” tra lavoratori e macchine intelligenti, rende ancora più importante quella manualità sapiente, tanto da assegnare valore alle persone e renderle meno sostituibili.
L’Europa sta garantendo, con diversi strumenti, una quantità enorme di risorse per affrontare la crisi. Perché questa liquidità sembra non arrivare ai professionisti, alle piccole e medie imprese?
Perché sono le categorie che uscivano già indebolite dalla crisi economica. Una buona soluzione potrebbe essere l’erogazione rapida di credito con garanzia statale per le categorie che più stanno pagando la crisi scaturita dall’attuale emergenza, come proposto da alcune associazioni. Fondamentale è infatti riorganizzare subito la ripartenza e farlo con grande competenza. Più che di rifondazione su base innovativa dobbiamo parlare di riprogettazione del lavoro. Questa potrebbe essere possibilità per dare sicurezza in particolare all’economia reale e alle pmi che rischiano di rimanere sole.
È possibile portare avanti una guerra ideologica sul MES rischiando di perdere 37 miliardi da utilizzare per la nostra sanità?
Assolutamente no, il Mes nella nuova versione ha superato le condizioni con cui nacque e consente di intervenire sul bisogno di risorse della nostra sanità senza dover ricorrere al debito pubblico. Attualmente il MES rappresenta un oggetto misterioso per gran parte degli italiani, che ha una paternità diffusa e si investe, strumentalizzandolo, in uno scontro con l’Europa che viene svolto utilizzando l’ennesima cartuccia populista che serve a oscurare dopo diversi ritardi quanto l’Europa sta mettendo in campo, in modo più integrato in questa fase, per far fronte all’emergenza. Troppi italiani pensano che sia con la lira che con l’euro i soldi che mancano si ricavano semplicemente stampandoli. I paesi che lo fanno (vedi il Venezuela) sono alla fame. E il tema del nostro debito è li, resta un’ipoteca sul futuro. Sicuramente si spenderà in deficit ma attenzione a non buttare denaro, a investirlo bene a proteggere le persone e fare in modo che ogni euro pubblico abiliti e stimoli tanti euro privati in investimenti produttivi.
Negli ultimi anni i dipendenti pubblici sono stati trattati come dei fannulloni con lo stipendio garantito, anche da parte di molti ministri. La pandemia ha contribuito a cambiare questo paradigma. Come fare a non tornare indietro a emergenza superata?
Serve una vera rivoluzione per approdare ad una nuova normalità. Per questo le task force e i comitati tecnico-scientifici sono utili a indicarci le prescrizioni per il breve e medio periodo. La nostra attenzione va alle distanze e alle mascherine e si spinge poco oltre. Invece è proprio necessario ragionare sulla ripresa passando dal “dopo” all’ “oltre”. Non si tratta semplicemente di effetti non intenzionali dell’azione umana. È in corso una banalizzazione del “giorno dopo” dettata dalla precisa strategia che vuole che nulla cambi. Non possiamo crogiolarci nel “ritorno” alla normalità quando quella normalità è stata la causa dei nostri problemi. La vecchia “normalità” è stata la causa di questo disastro e ne serve una profondamente nuova se vogliamo bene alle persone e a questa terra.
È stato corretto utilizzare così tante risorse per finanziare quota 100 in modo generalizzato?
Assolutamente no. L’equazione per cui per ogni pensionato ci sarebbe un’assunzione è difficilissima. La staffetta generazionale è un’illusione, specie dopo aver mortificato nella legge di Bilancio industria e lavoro.
Nel 2020, a 70 dalla nascita della FIM-CISL, ha ancora senso mantenere una divisione delle rappresentanze sindacali? Esistono ancora oggi differenze tra l’approccio al lavoro della componente sindacale cristiana rispetto a quella socialcomunista?
Fim e Cisl sono sindacati aconfessionali, sebbene con radici cristiane. Permangono differenze sul modello sindacale di riferimento e su quanto si investe sull’innovazione e sulla partecipazione, però di sicuro bisognerà fare qualche passo in avanti rispetto alle motivazioni che portarono alla divisione negli anni cinquanta. In Fiat Fca abbiamo 6 sindacati, nei paesi dove è forte la partecipazione strategica non vi sono più di due sigle, il tema è impegnativo ma non possiamo né derubricarlo ma neanche semplificarlo con lanci giornalistici.
Papa Francesco ha convocato ad Assisi giovani studiosi ed operatori economici per programmare, nello spirito di San Francesco, un’economia più giusta, fraterna, sostenibile e con un nuovo protagonismo di chi oggi è escluso. Che possibilità ha di incidere sui governi la cosiddetta Economia di Francesco?
“Il tempo è superiore allo spazio” (Laudato si’). Questo principio, enunciato da Francesco, permette di lavorare su orizzonti lontani, senza l’ossessione dei risultati immediati. Perché continui a essere possibile offrire occupazione, perché il lavoro sia accessibile a tutti è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. L’innovazione ha un ruolo determinante in tutto questo. L’Economia di Francesco è prima di tutto un’economia civile. È un messaggio dirompente che supera la discussione tra mercatisti e antimercatisti, per dire che ogni progetto umano deve avere l’uomo come fine e non come mezzo. Molte culture economiche leggono le disuguaglianze e il successo attraverso la chiave del determinismo economico. In realtà la forza dei legami sociali rafforza il tessuto economico. Nella Laudato si’ emerge con forza una nuova visione del lavoro come luogo positivo in cui “fiorire”, espressione che mi ha colpito molto.
Come giudica la classe dirigente italiana? Conosce Carlo Bonomi, presidente designato di Confindustria? Come pensa che si confronterà con le associazioni dei lavoratori?
L’ho conosciuto come presidente di Assolombarda in incontri relativi al settore metalmeccanico milanese e ho trovato un interlocutore corretto, leale e disponibile. Ho sempre riscontrato in lui la volontà di innovare le relazioni industriali e in esse come si evolve la capacità di rappresentanza. Gli faccio i miei migliori auguri, la strada di chi innova davvero non è mai in discesa.
Parrebbe che la lezione della pandemia sia che l’intervento dello Stato in economia non è più un tabù. Come dovrebbe riorganizzarsi il decisore di fronte a questo dato di fatto?
In tutto il mondo si assiste ad uno stringersi intorno al leader. Ma finita la fase favorevole di oggi, si dovranno produrre risultati e servono idee chiare e scelte coerenti, ora. La maggiore tolleranza popolare di un atteggiamento “dirigista” dei governi non durerà in eterno e va sfruttata per modernizzare il paese e non per assurdi ritorni al passato.
La globalizzazione ha indotto a un decentramento delle attività produttive, soprattutto quelle di minore valore aggiunto, a bassa componente tecnologica. L’Italia e l’Europa hanno perso la loro autosufficienza. L’attuale crisi ha evidenziato tutti i limiti di questo processo. In che misura le nazioni ripenseranno le proprie strategie produttive?
Noi, piccoli e poveri di materie prime e con un manifatturiero dominato dalla meccanica strumentale, non possiamo avere il primario di quel settore, la siderurgia, troppo distante. Bisognerà avere più consapevolezza delle filiere di ogni azienda e ridisegnarle sul terreno della sostenibilità. La globalizzazione è tutt’altro che finita. Ma dovrà imparare la lezione della sostenibilità come elemento di forza economica. E’ l’ingrediente che la rende meno vulnerabile agli schock esterni come le pandemie, le guerre, i disastri idrogeologici, l’instabilità politica.
Il 9 maggio si celebra la festa dell’Europa. In Italia cresce in modo preoccupante un sentimento antieuropeo. La gestione di questa emergenza è l’ultimo appello per l’Europa così come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi?
Il sentimento antieuropeista va di pari passo con quello populista che ci ha abituati alla dialettica dell’odio, a cercare sempre un nemico all’esterno per poter risolvere i nostri problemi: l’immigrato, il cinese, il lombardo, l’Europa. Quello di cui non si parla è che Commissione e Parlamento Europeo hanno ben poco potere rispetto al Consiglio, per cui il potere decisionale è nelle mani dei singoli stati membri e non dell’Unione Europea. Quindi, da una parte c’è disinformazione sul funzionamento delle istituzioni, dall’altra, se l’UE non si evolverà verso una maggiore integrazione politica, gli interessi particolaristici prevarranno sempre .
L’Italia è preparata a una nuova ecologia economica? Siamo pronti a seguire le indicazioni contenute nel piano “Green deal” della presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen?
Questa lacuna non è attribuibile solo al ceto politico però, è un problema culturale che va risolto. Sono gli elettori che per primi devono volere il cambiamento ed una classe politica in grado di attuarlo. Cito sempre l’esempio di VoestAlpine a Linz, in Austria: gli elettori hanno chiesto ai politici di coniugare ambiente e produzione ed è stato realizzato un impianto ecosostenibile vicino alla città. In Italia prevalgono incompetenza, demagogia e irresponsabilità, che stanno mettendo in ginocchio il Paese.
Il M5S ha preso il 47% dei voti a Taranto promettendo la chiusura dell’ex Ilva. Che idea di sviluppo offre al Paese chi si dichiara No Tav, No Tap, No Vax, No Mes, no Ilva?
L’idea di un Paese che vuole vivere di assistenzialismo e non di lavoro. La scelta di modificare nuovamente lo scudo penale per i lavoratori Arcelor Mittal dimostra un atteggiamento schizofrenico del Governo, che in modo maldestro ha cercato di recuperare voti su Taranto ma in realtà ha fornito un alibi all’azienda per andar via. L’approccio terrapiattista elettoralistico sulle questioni industriali fa male ad ambiente, lavoratori e imprese. Un capolavoro. Un Paese che bandisce una gara di rilevanza internazionale con delle regole che poi cambia e ricambia due volte, è un Paese in cui non solo nessuno investe 1,8 miliardi di euro, ma nessuno viene a investire neanche 10 milioni.
Quanto le procure hanno inciso sulle politiche per Taranto? I giudici hanno colmato un vuoto creato e lasciato dalla politica?
La magistratura ha un ruolo fondamentale, ma non può sostituirsi al governo della politica industriale. Dal punto di vista dell’efficacia c’è qualche problema, perché mentre sequestri e arresti all’inizio potevano essere anche giusti, non è accettabile che il dibattimento per il processo partito nel 2012 sia iniziato cinque anni dopo. Facendo così, gli unici a pagare sono i lavoratori e l’ambiente. Dobbiamo tornare il paese della certezza del diritto, non del contenzioso. Serve equilibrio tra i poteri dello Stato.
L’Italia può rinunciare a produrre acciaio, uscendo da uno dei settori strategici dell’industria pesante? Che messaggio lanciamo al mondo rinunciando all’industria metalmeccanica?
Il messaggio al mondo è un grande cartello che dice “non venite a investire in Italia”. Prima dell’emergenza sanitaria, chi mai avrebbe voluto investire in un paese dove ci sono costi legati, carenza di infrastrutture, una burocrazia asfissiante e una politica schizofrenica a livello locale quanto nazionale (un caso su tutti l’ex Ilva di Taranto, oggi ArcelorMittal) e un sistema giudiziario lento e inefficiente. L’Italia avrebbe bisogno di una classe politica capace di immaginare il Paese tra 30, 50 anni e non alle prossime elezioni.