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Poi si pensa

Dicono che la lingua siciliana non preveda l’uso del futuro. Si usa un avverbio di tempo accompagnato dal presente indicativo: domani lo faccio, ora vediamo, poi ci pensiamo. Spesso si dice “poi si pensa”, così rinunciando ad ogni personalizzazione. Per la lingua siciliana ciò che conta è solo il presente, nel quale si ha certezza della propria intangibilità. Ci si appropria del presente per scongiurare l’ansia del divenire e, di conseguenza, della morte. In questo il siciliano è lingua modernissima: non ci si chiede forse oggi di essere sempre più smart, fast, efficient…? Insieme alla morte, questa corsa efficientista espunge dal corso della vita un’età precisa: la vecchiaia. La vecchiaia è dolorosa, per chi la guarda. Ogni ruga ricorda l’incedere del tempo, spietato nonostante qualche  rimedio posticcio. Sarà per questo che per le recenti morti dei ricoverati nelle RSA il comune sentire ha, per lo più, fatto spallucce. Poi ci pensiamo.

C’è anche un altro patrimonio umano che ricordiamo a fatica. L’infanzia, edulcorata da quell’immagine finta di bambini paffutelli e mansueti che corrono spensierati sotto lo sguardo di mamme dal sorriso perfetto e papà in maniche di camicia, nel migliore dei casi è un pensiero da segnare in agenda, una casellina da marcare con una spunta. La necessità di prenderne nota è forse il nostro peggiore fallimento. Poi ci pensiamo.

Nell’attuale tentativo di superamento della clausura forzata, la “questione infanzia” produce sguardi vacui e la necessità di recuperare la pagina dell’agenda in cui ci si era segnati di ricordarsi della cosa. Uno scenario molto bello arriva invece dalla Cina, dove si è deciso che le scuole riapriranno per ultime, prima i licei e infine le elementari. Il fatto è legato alla nota politica del figlio unico, che ha reso oggi preziosissimi bambini e ragazzi.

Dalle nostre parti invece il mondo adultocentrico che pervicacemente ed egoisticamente ci siamo costruiti, ha accantonato l’infanzia, tanto più in questi lunghi mesi solitari che ci hanno colti, sgomenti, a dover riempire il vuoto lasciato dalla rinuncia forzata ad ogni attività mangia-tempo. Il Paese di Don Bosco, di Don Milani, della Montessori e di Malaguzzi dovrebbe onestamente ammettere che i bambini gli sono ormai di peso e che il tema della riapertura delle scuole è concepito per lo più in via sussidiaria alla possibilità per i genitori di tornare al lavoro. Le vere urgenze sono il tempo e gli spazi degli adulti, non certo quelle dei piccoli, ed è per questo che per loro non si riesce a produrre altro che soluzioni malconce ed economiciste. I piccoli poi, dal canto loro, difficilmente potranno sentirsi protetti e nemmeno sanno di essere preziosi, perché noi non li trattiamo da tali. Almeno adesso. Poi si pensa.

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