Ettore Castagna è musicista e antropologo. Da 40 anni ricerca, insegna e scrive. Inizia con lui una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo musicale che si confronta con le tradizioni italiane e internazionali.
Calabrese a Bergamo, come hai vissuto questo periodo di quarantena?
In modo non molto originale. Ho scritto e suonato molto. È stata pure un’occasione per tirare fuori composizioni nuove, rivedere oggetti sepolti in cantina, videotape del giurassico.
Un giorno mi è stato detto: “Tu fai quella musica che poi arrivano quelle ragazze carine con le gonne larghe che ballano sorridenti?”. Sono svenuto. Tu? Che musica fai?
Devi sapere una cosa: se sei tu quello che suona le ragazze carine le vedi solo da lontano. Per avvicinarti devi essere quello che balla. Io sono quello che suona. Alla mia veneranda età ho suonato di tutto: ballabile, non ballabile, ascoltabile, inascoltabile. E poi rock, un po’ di pop e quella zuppa indefinita che si chiama folk, acustica, popolare, etnica. Vai a capire…
Ma molti anni prima c’era chi si stupiva perché andavamo a fare concerti senza “pacchianedde”. Possibile che non vada mai bene?
Una volta, con il mio storico Re Niliu, ci dissero che avrebbero gradito il gruppo con le ballerine, ma in costume. Era agosto e ci presentammo tuti maschi e in costume da bagno. Era in Sicilia, non posso dire dove ovviamente, ma ho anche le foto. Rischiò di finire a legnate.
Di una cosa forse possiamo ringraziare il coronavirus, questa estate non ci sarà la solita omogenea di distribuzione di sagre-festival che consumano panini con salsiccia e tarantelle e c’è già chi si lamenta per la perdita economica. E’ vera perdita?
Non credo proprio. A me dispiace sinceramente per i musicisti senza lavoro, ma devo dire che senza lavoro lo eravamo pure lo stesso prima, dato che festival e piazze sono invase da cover band spesso sotto la soglia dell’ascoltabilità. Per cui, in questo senso, del reset non sono dispiaciuto.
Se volessimo definire in breve la danza della tarantella? Esiste o non esiste?
Ci ho scritto un libro intero sulla vicenda (U sonu, Squilibri, Roma, 2006). Storicamente parlando, la tarantella non è mai esistita. L’espressione “tarantella” è un’invenzione prima aristocratica, poi borghese e poi dei gruppi folcloristici creati dal fascismo. I mondi contadini un tempo avevano le loro danze che con le tarantelle di oggi c’entrano, citando Garcia Marquez, come il cazzo con l’equinozio. In ogni caso ai ragazzi urbanizzati in cerca di radici, oltre la foresta di centri commerciali e codici a barre, tutto ciò piace, quindi avanti così.
Cosa pensi del fenomeno del balfolk? Pensi che gli appassionati abbiano sofferto in questi mesi di lockdown o il digiuno avrà fatto bene?
Sicuramente avranno sofferto. Io no. L’astinenza fa sempre bene. Attizza il desiderio. Come nel sesso.
Senza uno spazio pubblico resta solo il ballo con il congiunto o l’affetto stabile. E’ sufficiente? Chi ci perde?
La dimensione sociale del ballo è già scomparsa da tempo. Una volta il ballo era occasione spontanea di incontro delle comunità. Oggi senza un palco, un’amplificazione, dei manifesti, striscioni e fumogeni la gente non si lascia coinvolgere. Direi che abbiamo già perso. C’è da sperare che in futuro si sappia ritrovare l’umanità di una musica analogica, reale, suonata e di un ballo che porti altrettante caratteristiche umane.