di Maurizio Cuzzocrea e Emanuele Raco
Sono passati più di 50 anni dal 26 giugno in cui don Lorenzo Milani lasciava la sua terra e i suoi ragazzi. Il pellegrinaggio a Barbiana di papa Francesco del 20 giugno 2017 ha riconosciuto e offerto pubblicamente l’immagine di un uomo fedele al Vangelo, che non voleva che il suo impegno fosse letto e vissuto come un fatto privato. È tuttora un protagonista del dibattito pubblico italiano, ponendo alla nostra attenzione l’impegno per la dignità della persona e per l’educazione. Come è stato possibile che un uomo osteggiato in vita influisca così a lungo sulla nostra società?
In realtà, don Lorenzo Milani è stato osteggiato, durante la sua vita, soltanto dalla gerarchia ecclesiastica di allora, ciò di cui tre anni fa il Papa ha chiesto scusa a nome della Chiesa intera. Ma già allora era ascoltato con grandissima attenzione dalla parte più aperta della società civile italiana: penso alla parte dei cattolici che già allora coglieva appieno la forza della sua predicazione, a cominciare da Davide Turoldo, Ernesto Balducci, Raniero La Valle, ma l’elenco sarebbe lungo; e anche al partito comunista che riprendeva la Lettera ai cappellani militari sul proprio settimanale, Rinascita, a costo di vedere il direttore del periodico incriminato insieme all’autore della lettera. Poi, subito dopo la morte, la sua Lettera a una professoressa venne assunta come una bandiera dal movimento studentesco. Ma va detto che non tutti ne capirono il senso profondo.
Ha mai pensato che don Milani, per alcuni, possa essere diventato un luogo comune? Uno di cui usare qualche citazione e a cui fare riferimento, senza un confronto e uno studio approfondito della sua esperienza di vita?
Questo è accaduto a lui, come a molti altri grandi personaggi della nostra storia politica e culturale contemporanea. Ma nel suo caso va detto che una piena comprensione del suo messaggio non è affatto facile; e dunque il rischio che della sua eredità si diffondano soltanto alcuni aforismi, isolati dal contesto del suo pensiero, è elevatissimo.
Lei ha avuto modo di incontrare don Milani in un contesto familiare e di frequentarlo negli anni fondamentali della crescita giovanile. A distanza di tanto tempo, cosa ricorda con maggiore forza?
A rispondere a una domanda come questa ho dedicato un libro uscito due anni fa, La casa nella pineta. In estrema sintesi, io adolescente fui conquistato dal fascino della testimonianza integrale del Priore di Barbiana, consistente in quel che diceva ma soprattutto in quel che faceva. Del suo insegnamento sul piano della teologia etico-politica mi è rimasta impressa soprattutto la sua risposta a chi contestava la sua predicazione ricordandogli che la dottrina sociale della Chiesa cattolica riconosce il diritto di proprietà: lui replicava che rientra nella dottrina sociale della Chiesa anche il principio enunciato da San Tommaso d’Aquino, secondo cui in extremis omnia sunt communia; e, aggiungeva, “se sei cristiano, per stabilire dove stia l’extremum devi metterti nei panni del povero che hai di fronte”.
Lei cosa pensa di chi ha definito don Milani un catto-comunista? Lo era davvero?
Don Lorenzo era cattolico fin nel midollo, persino con alcune venature preconciliari: negli ultimi anni amava dire, in riferimento al pontificato di Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II, di essere stato “scavalcato a sinistra dal Papa”. Per altro verso, proprio sulla sua fede nel Vangelo si fondava il suo vero e proprio comunismo. Era un comunismo essenzialmente etico: si fondava proprio su quel in extremis omnia sunt communia, di cui abbiamo parlato prima. Dunque, sì: secondo me si può dire che fosse al tempo stesso un cattolico e – nel senso che ho precisato – un comunista. Da questo, però, ad affibbiargli l’etichetta di “catto-comunista” ci corre. Perché quell’etichetta è nata in un ambiente culturale socialista, a metà degli anni Settanta e in particolare all’epoca dell’abbraccio tra democristiani e comunisti nella politica dell’“unità nazionale”, per stigmatizzare in particolare la presenza di moltissimi cattolici nelle file del Pci; ma don Lorenzo non aveva una particolare simpatia verso il partito comunista: anzi, quando – in modo sempre molto riservato – si sbottonò su questo terreno, espresse semmai un atteggiamento favorevole all’impegno di alcuni suoi allievi proprio nel Partito socialista.
Don Milani ha sempre difeso la sua totale fedeltà al Vangelo, ma è diventato anche un riferimento forte dei laici non cristiani. Walter Veltroni ha scelto il suo “I care” come motto di un congresso di partito addirittura 20 anni fa. A chi parlava e parla ancora il prete toscano?
Parlava e parla ancora a chiunque abbia a cuore l’attuazione del programma contenuto nell’articolo 3 della Costituzione italiana, cioè l’eliminazione degli ostacoli all’uguaglianza sostanziale dei cittadini. E ciò di cui parla conserva tutta intera la sua attualità: all’origine delle disuguaglianze sta non tanto la proprietà dei mezzi di produzione in mano a pochi capitalisti, come insegna il marxismo, quanto il difetto di cultura di cui soffrono i poveri: il non saper leggere, capire, scrivere, esprimersi. Oggi, a mezzo secolo di distanza dal ’68 e a trenta dalla caduta del Muro, all’espressione “uguaglianza” sostituiamo volentieri “parità di opportunità”; ma il discorso è fondamentalmente sempre quello.
“I care”, frase inglese, significava anche l’attenzione di don Milani per lo studio delle lingue estere e la conoscenza del mondo. Tutti i nostri ragazzi sono oggi in grado di inserirsi nel mondo globalizzato o scontiamo ancora troppe differenze per la provenienza geografica e di classe sociale?
Oggi è molto più facile e meno costoso viaggiare, rispetto a mezzo secolo fa: questo consente a molti di sottrarsi alla povertà, anche a quella culturale. Ma la qualità della nostra scuola media, nel frattempo, è peggiorata drammaticamente: nella maggior parte dei casi essa – a differenza della scuola media dei ricchi precedente alla riforma dei primi anni ’60 – non insegna più a scrivere, e neppure a leggere, che è ancora più importante per combattere la povertà culturale. Al termine della scuola media i ragazzi hanno accesso a qualsiasi facoltà universitaria, ma per lo più difettano delle basi necessarie per affrontarla, se non c’è la famiglia a fornirle. In questo modo la scuola media tradisce la propria funzione di “cantiere” della costruzione della parità di opportunità. Della predicazione milaniana prende soltanto, opportunisticamente, il “non bocciare”, dimenticandone la parte più importante, che consiste nel dovere di insegnare a scrivere, leggere ed esprimersi soprattutto a chi non ha alle spalle una famiglia colta.
Il mondo scolastico oggi è messo a dura prova dalla pandemia e gli studenti italiani hanno completato l’anno senza rientrare in classe. Quali saranno le conseguenze? Chi sono i soggetti deboli che subiscono maggiori danni durante il tempo della quarantena?
Proprio in questi giorni i ragazzi francesi sono tornati a scuola, dopo il lockdown; da noi, invece, si discute se si tornerà a scuola a metà o a fine settembre; ed è ormai il quarto mese che il personale amministrativo e tecnico delle scuole non mette piede nel luogo di lavoro: davvero tutti smart workers come sostiene la ministra della Funzione Pubblica? In questa fase di emergenza nella quale lo Stato dispone di risorse straordinarie per il rilancio del Paese, non c’è un progetto per l’ammodernamento delle strutture scolastiche; e il Governo stanzia per la scuola la metà di quello che stanzia per tenere in vita Alitalia con la respirazione bocca a bocca. Un anno di scuola in gran parte svuotato costituisce una perdita gravissima per i figli delle famiglie più povere: quelle che non sono in grado di supplire alle carenze della scuola. E le disuguaglianze si aggravano.
Oggi potrebbe esserci da qualche parte una nuova Barbiana? Quel modello di scuola non è forse troppo esigente sul piano della partecipazione, sia dei docenti, sia degli studenti?
Il sistema scolastico dovrebbe consentire che al proprio interno – anche sul versante pubblico – fiorissero esperimenti di scuola diversa, sotto tutti i punti di vista: dalle modalità di reclutamento degli insegnanti a quelle di retribuzione, ai programmi e ai metodi di insegnamento. Con la clausola, ovviamente, secondo cui se le iscrizioni non arrivano l’istituto chiude e il suo personale va a casa. E con un sistema di monitoraggio serio e conoscibilità della qualità della didattica, sul tipo di quello svolto in Gran Bretagna dalla Ofsted, basato congiuntamente sullo studio degli esiti scolastici ed occupazionali, sui test standardizzati e sulle valutazioni delle famiglie. Tutte cose cui, nel nostro Paese, i primi a opporsi sono i sindacati del settore e conseguentemente la sinistra politica; ma per restituire alla scuola la sua funzione di ascensore sociale occorrerebbe che venisse dato più peso agli interessi degli studenti che a quelli del personale, didattico tecnico e amministrativo.
Può essere solo un esercizio retorico, ma oggi che qualcuno vorrebbe reintrodurre la leva obbligatoria, cosa direbbe don Milani? A chi scriverebbe?
Lui, a dire il vero, non era contrario tanto alla leva obbligatoria, quanto al militarismo, che è tutt’altra cosa.
L’impegno per la liberazione dai bisogni e dalla povertà oggi in quali programmi e posizioni politiche può trovare casa?
Il mondo politico degli anni ’50 e ’60, nei quali don Lorenzo ha vissuto la propria età adulta, è quasi completamente scomparso. Invece non è tramontata affatto l’idea politica centrale nel pensiero di don Milani, quella della scuola come strumento cardine della lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Sarebbe bello che nascesse una forza politica capace veramente di centrare il proprio programma su questa idea. Ma per il momento non la vedo all’orizzonte.