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Francesco Pizzetti: no alla geopartizzazione dei diritti fondamentali

Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto Costituzionale e presidente dell’Autorità Garante per la Privacy dal 2005 al 2012. Quali sono le ragioni che hanno spinto il Governo a tenere riservati i verbali del Comitato Tecnico Scientifico, pubblicati dalla Fondazione Luigi Einaudi?
Alla lettura dei primi verbali pubblicati non appare immediatamente chiaro. Sono contenuti che ripetono cose che il Governo stesso aveva pubblicamente affermato in concomitanza con gli eventi a cui si riferiscono.

C’è molta polemica, anche tra gli esperti, per la decisione del Governo di limitare diritti costituzionali con provvedimenti amministrativi. Cosa ne pensa?
Sono stato tra i primi a evidenziare un problema di fonti in un post pubblicato su Agenda Digitale alla fine del mese di marzo. Avevo sottolineato che la fonte utilizzata, il Dpcm, trovava il suo fondamento in una normativa di rango legislativo relativa alla Protezione civile. C’era quindi una base normativa che giustificava il ricorso a questi provvedimenti francamente un po’ particolari nell’uso che ne è stato fatto, tuttavia è evidente che la citata normativa mal si adattava alla situazione non perché non ci fosse una urgenza, imprevista nelle sue dimensioni, ma perché tutto faceva pensare che si trattasse di una emergenza di durata non breve e di una emergenza come fenomeno e non specifica come fatto.

Ci faccia un esempio.
La diga del Vajont che crolla, ad esempio, è un fatto che determina una emergenza, altra cosa è una pandemia, che determina una diffusione di stato emergenziale indefinibile sin dal principio. Poiché il contenuto di questi Dpcm incideva direttamente ed esplicitamente sull’esercizio dei diritti fondamentali, sulla libertà di circolazione, in parte anche sulla libertà di manifestazione del pensiero, ritengo che fosse ragionevole per non dire costituzionalmente necessario un intervento del Parlamento.

Si tratta di un tema che dovrà essere affrontato al più presto dai costituzionalisti e dal Parlamento.
Il problema c’è ed è sistemico, perché limitare dei diritti fondamentali senza toccare la forma di legge e neppure un atto normativo che richiede l’emanazione da parte del Presidente della Repubblica, non può che lasciare perplessi. Sarà bene tornare quanto prima sull’argomento.

Per non parlare delle diverse ordinanze emanate dai presidenti delle regioni e dai sindaci.
È un tema sul quale ho più volte espresso le mie perplessità. Considerato che in materia sanitaria sussiste anche la competenza delle regioni ed essendo l’emergenza che ha indotto il Governo a emanare questi Dpcm legata proprio alla situazione sanitaria, si è creata una concorrenza tra presidenti delle regioni e presidenza del Consiglio dei ministri sicuramente non utile sul piano pratico. Tra l’altro la legge sulla protezione civile, proprio per evitare questo, prevedeva che i Dpcm fossero sottoposti al confronto con i presidenti di regione laddove l’emergenza avesse un carattere regionalmente definito.

Una concorrenza utile?
Assolutamente no. La concorrenza tra Dpcm e ordinanze dei presidenti di regione ha portato a quella che mi sono permesso di definire geopartizzazione dei diritti fondamentali. Cosa che sicuramente è in contrasto col quadro costituzionale. Non possiamo accettare che un diritto fondamentale di un cittadino italiano cambi nella sua possibilità di tutela, di attuazione o di limitazione a seconda del territorio in cui si trova il cittadino nell’ambito del territorio nazionale. La cosa ha avuto dei riflessi anche importanti se consideriamo che in alcuni momenti sono stati bloccati gli sbarchi dei traghetti tra Reggio Calabria e Messina, avendo il presidente della regione Siciliana adottato un provvedimento che vietava tali sbarchi.

Ricordiamo tutti la famosa notte dell’assalto ai treni da Milano per le regioni del Sud.
Quello fu un problema di comunicazione. La sostanza giuridica è la geopartizzazione dei diritti. Non possiamo evitare di affrontare a fondo come e dove il punto di equilibrio tra provvedimenti di portata nazionale e provvedimenti di portata regionale, quando toccano i diritti fondamentali, si deve collocare. Noi abbiamo una norma costituzionale molto esplicita nel dire che la libertà di circolazione deve essere garantita e non può trovare nell’esistenza delle regioni una limitazione. Quando tutta questa vicenda sarà terminata bisognerà ritornare su questi temi. Da quello che so io, ma è una notizia non verificata, lo stesso ministro degli affari regionali ne è consapevole e ci sta pensando.

Pare che la regione Lombardia abbia chiesto di poter utilizzare dati conservati dalle compagnie telefoniche. Quali problemi può creare il tracciamento digitale dei cittadini?
Su questo tema ci sono illazioni basate su dichiarazioni forse anche non a fondo ragionate dell’assessore alla sanità della regione Lombardia, che disse anche che erano stati utilizzati meccanismi di localizzazione delle chiamate per individuare i posti dove potevano risiedere o essere passate persone poi risultate malate di coronavirus. Certo è che l’accesso ai tracciamenti delle telefonate, conservate normalmente dalle compagnie telefoniche per un certo periodo di tempo in modo del tutto legittimo, in Italia può essere acquisito solo dall’autorità giudiziaria. Certamente non sarebbe facile comprendere su quale fondamento giuridico, ancorché legato all’emergenza, questi dati siano stati richiesti e soprattutto messi a disposizione dei richiedenti. La cosiddetta ‘data retention’ è uno dei tormentoni della protezione dei dati europea. C’è stata una lunga vicenda che ha condotto anche a una specifica direttiva dell’UE alla quale gli stati si sono adeguati e che è stata oggetto di una sentenza della Corte tedesca che ha criticato l’eccessiva lunghezza del tempo di conservazione di questi dati. Non abbiamo elementi sufficienti per dare una più precisa e stringente valutazione.

Molti italiani hanno deciso di non scaricare l’app Immuni per ragioni di privacy. Può rassicurare i cittadini garantendo che sia sicura?
Sicura è una parola che andrebbe specificata. Sicura rispetto a cosa? Sicura rispetto al suo funzionamento, cioè alle finalità di tracciamento? Sicura nel senso che eventuali avvisi a persone che risultino essere state in un’area spaziale di contatto con malati di coronavirus sia recapitata secondo modalità sufficientemente tutelate e con una rapidità adeguata? Sono tanti i concetti di sicurezza. Quello che posso dire è che sono state adottate misure costruite sull’opinion, il parere dato dall’European data protection board, la conferenza dei presidenti delle autorità garanti europee che ha lo scopo di orientare e assicurare conformità di interpretazione del GDPR, il Regolamento generale sulla protezione dei dati nei diversi paesi europei. Il fatto che il Garante italiano abbia fornito parere favorevole, conoscendo la competenza del dipartimento informatico di quell’ufficio, mi fa ritenere che sia una applicazione che possa garantire affidabilità.

Non c’è nessun problema allora?
Il problema riguarda, sul piano dell’efficacia, non tanto l’app in quanto tale e le tecnologie adottate quanto la rapidità con la quale il servizio sanitario può assicurare il tamponamento e la rilevazione in concreto dello stato di salute della persona che è stata avvisata. È evidente che ricevere un avviso da Immuni non può che ingenerare una serie di doveri di autotutela, con obbligo di auto quarantena che a loro volta diventano un limite alla libertà personale: il cittadino che riceve un avviso ha l’obbligo di fare il tampone e in attesa dei risultati di procedere a una auto quarantena. È allora chiaro che una app di questo genere richiede un servizio sanitario molto efficiente, capace di dare una risposta in tempi molto rapidi alla persona che si presenta presso una struttura pubblica dichiarando di aver ricevuto un avviso di allerta.

Lo stato di emergenza in vigore, prorogato sino al 15 ottobre, in che modo incide sul diritto alla privacy degli italiani?
Il Regolamento generale sulla protezione dei dati dice che il diritto alla privacy cede in presenza di una serie di situazioni ed eventi fra i quali la sfera della salute. Da questo punto di vista non ci sono particolari problemi. Il tema non è tanto se la protezione dati può essere compressa dall’esigenza della tutela della salute: la risposta è si e il Presidente della Repubblica lo ha ricordato con chiarezza. È chiaro che prevale la tutela della salute collettiva sulla privacy individuale. Il problema è come e con quali regole, dettate da chi. Da questo punto di vista il DPGR prevede interventi normativi, che sia la legge a individuare quale sia il punto di equilibrio corretto tra la compressione di questo diritto fondamentale e la sua tutela. Nel caso di specie, non per causa imputabile all’ordinamento italiano, le autorità garanti si sono un po’ sostituite ai legislatori e quindi il punto di equilibrio tra la tutela della protezione dei dati personali e la tutela della salute collettiva è stato definito dall’opinion citato al quale il garante italiano si è puntualmente attenuto così come ha fatto chi ha elaborato l’app Immuni. È sulla base di quel parere che si è affermato il principio che l’applicazione non può essere imposta ma deve essere una scelta libera delle persone: la decisione di sottoporsi a una limitazione della propria privacy per tutela della salute pubblica attraverso un’applicazione è stata rimessa alla libertà delle persone secondo la regola in base alla quale col mio consenso i miei dati personali possono sempre essere utilizzati.

Lei è un professore ordinario di Diritto Costituzionale. Cosa pensa della legge che taglia il numero dei parlamentari e del referendum costituzionale che si svolgerà a settembre?
Da costituzionalista posso dire che si tratta di una riforma importante, rispetto alla quale non credo che abbia significato fondamentale il supposto risparmio derivante dal minor numero di persone a cui vanno le retribuzioni proprie dei parlamentari. Richiamerei l’attenzione sul problema della rappresentanza. È chiaro che la riduzione del numero dei parlamentari fa si che cresca il numero degli italiani rappresentati da ciascun singolo parlamentare. Questo ha effetti concreti perché possono esserci porzioni di territorio, anche molto ampie, che avranno diritto a un solo seggio: così la rappresentanza si allunga e la possibilità di contatto dei cittadini col proprio rappresentante si rende meno facile. Questo è il tema essenziale. Abbiamo così forte la convinzione che il numero dei parlamentari sia eccessivo da ritenere utile che sia meno facile incontrare i propri parlamentari o invece pensiamo, come ritennero i costituenti, che essendo un Paese relativamente grande come territorio e come popolazione 630 deputati e 315 senatori sia un numero corretto per garantire una catena di rappresentanza più corta? Il tema da tenere in particolare attenzione per un costituzionalista è il rapporto di rappresentanza. Quanto grande deve essere un territorio per esprimere un eletto? La metà della popolazione italiana risiede nelle città metropolitane, il che vuol dire che le città metropolitane hanno più o meno una rappresentanza pari al resto del Paese. Più riduco il numero degli eletti più è lunga la catena di rappresentanza. Questo è l’interrogativo di fronte al quale gli italiani sono chiamati a dare una risposta. Ognuno farà le sue valutazioni.

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