Press "Enter" to skip to content

Shiv Someshwar: sviluppo sostenibile per non dover scegliere tra crescita e ambiente

Shivsharan Someshwar – “Shiv” come preferisce lui – collabora con le Nazioni Unite per la realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e da decenni si occupa di sviluppo sostenibile e cambiamento climatico. Indiano di origine, professore alla Columbia University di New York e all’Istituto di Studi Politici di Parigi, può vantare una prospettiva davvero globale su un tema fondamentale per il nostro futuro, riguardo cui è convinto sia necessaria “una rivoluzione nel nostro modo di pensare”.

Oggi lo sviluppo sostenibile è – fortunatamente – tra gli argomenti più discussi e dibattuti. Di conseguenza, l’espressione “sviluppo sostenibile” è ampiamente utilizzata. Lei che se ne occupa da più di venticinque anni, può aiutarci a capire meglio di cosa parliamo esattamente?
Partirei dal chiarire che cosa non è lo sviluppo sostenibile! Non è avere crescita economica prima e, sostenibilità ambientale dopo. Non si tratta nemmeno di incentivare grandi guadagni per pochi e sperare che nel tempo si traducano in un rivolo di benefici economici per il resto dei cittadini. Sviluppo sostenibile non è solo garantire una durabilità ambientale; non è l’assoluto controllo da parte dello Stato sui processi economici, ma nemmeno un meccanismo governato solamente dal mercato. Uno degli errori di rappresentazione di maggior successo è che lo sviluppo sostenibile sia vantaggioso per tutti; che non esistano perdenti. Non è così. Ogni azione collettiva ha vincitori e vinti. È essenziale capire quali sono le persone, comunità o società che perdono, e perché così da agire di conseguenza: proteggere i più vulnerabili e regolare gli eccessi dei vincitori.

Dunque, che cos’è lo Sviluppo Sostenibile?
Coinvolge quattro dimensioni, tutte importanti per persone e società, indipendentemente da dove si trovino. La prima riguarda istituzioni e processi, cioè il modo in cui gestiamo la nostra vita collettiva: si tratta sia di un mezzo per raggiungere uno sviluppo sostenibile che di un fine in sé per assicurare la pace, la sicurezza e la prosperità di tutti. Le altre tre dimensioni sono crescita economica, durabilità ambientale e inclusione sociale. É fondamentale che tutte e tre siano garantite contemporaneamente, e non portate avanti una prima di un’altra. Ed è questo che rende lo sviluppo sostenibile una sfida così complessa che da una parte è percepita come una minaccia da persone e aziende che stanno realizzando enormi guadagni e, dall’altra, come una promessa per le tante comunità che sono state economicamente o socialmente emarginate o che vivono in condizioni ambientali precarie. Lo sviluppo sostenibile richiede una rivoluzione nel nostro modo di pensare al cosa, al perché e al come.

La pandemia ha avuto drammatici impatti economici sulla società, colpendo le fasce più vulnerabili della popolazione, oltre che determinando un crollo delle entrate dei governi. Se molti leader sostengono che l’aumento dell’occupazione dovrebbe essere al centro degli sforzi pubblici, molti altri, al contrario, affermano che è la sostenibilità ambientale, per via del suo impatto sull’intera umanità, a dover essere affrontata per prima. Cosa ne pensa di questa tensione che si sta manifestando in molti paesi dell’UE e a livello internazionale?
Che entrambi gli approcci sono sbagliati!

Ci spieghi.
È un modo di ragionare a comportamenti stagni, che considera la crescita economica e la sostenibilità ambientale come elementi separati e che suggerisce che la cosa importante sia quale dei due debba venire prima . Per gli ambientalisti, vengono prima natura e processi ambientali, che devono essere protetti dalla devastazione a tutti i costi. Per i sostenitori della crescita economica, invece, la priorità va data agli standard di vita delle persone. Questa è una dicotomia fuorviante, anche se ampiamente condivisa, che esiste da un po’ di tempo, soprattutto tra gli “esperti” e che sta ricevendo maggiore attenzione a causa delle urgenze economiche e sanitarie imposte dalla pandemia.

Allora quale è la maniera migliore di guardare a queste due dimensioni, quella economica e quella ambientale?
Concentrandosi sulla loro relazione: cosa speriamo di guadagnare con una e a quale costo per l’altra? Quali le probabili perdite a breve e lungo termine? Per chi e dove? Spazio e tempo sono elementi fondamentali nel rapporto tra economia e ambiente. Lo spazio ci aiuta a pensare alle regioni e alle persone colpite (e in che modo) in maniera completa, invece di limitarsi a guardare solo valori medi. Il tempo permette di alzare lo sguardo dal contingente e ad impegnarci ancora di più.

In concreto, come ragionare in termini di spazio e tempo può aiutarci?
Questi fattori ci mettono in guardia su un aspetto importante dello sviluppo sostenibile: la longevità dei nostri successi e le sfide che probabilmente dovranno essere affrontate nel presente e nel prossimo futuro. Ad esempio, se consideriamo la durabilità ambientale un lusso in questi tempi di pandemia, e promuoviamo la trivellazione petrolifera nell’Artico, o sovvenzioniamo la produzione di elettricità alimentata a carbone, quali saranno i probabili impatti ambientali in futuro? Quanto consistenti? Supererebbero un certo valore soglia, causando danni che potrebbero essere relativamente permanenti? E, altrettanto importante, su “chi” avrebbero un impatto? Quali sarebbero i costi sanitari dell’inquinamento provocato dalla combustione del carbone tra anziani e bambini? Le famiglie che probabilmente saranno colpite erano d’accordo con quelle decisioni?

Molto chiaro! Adesso vorrei spostare la sua attenzione sull’Unione europea e la sua decisione di mettere in primo piano lo Sviluppo sostenibile attraverso il Green Deal. Pensa che la pandemia e la necessità di una rapida ripresa economica costituiscano una minaccia per le ambizioni verdi dell’UE?
La decisione coraggiosa dell’UE di attenersi al Green Deal e di puntare ancora più in alto merita un plauso. Un punto chiave del programma del Green Deal europeo e che a causa della pandemia richiede maggiore riflessione e risorse, riguarda la “transizione giusta”. Questa espressione inizialmente si riferisce alla transizione verso la neutralità rispetto ai combustibili fossili. A causa della pandemia e del suo impatto sociale, dobbiamo espanderla al di là delle questioni climatiche e includere le implicazioni delle voragini delle disparità economiche e sociali. Altrimenti facciamo il gioco di coloro che dipingono il Green Deal come un modo per privilegiare le questioni “verdi” sulle condizioni materiali delle persone. Quello che sto dicendo è che la “transizione giusta” deve essere assolutamente fedele allo sviluppo sostenibile, per aiutarci a superare la visione binaria – di “economico” e di “verde” – propria della vecchia normalità.

Parlando della “vecchia normalità”: come conseguenza della pandemia, vede un cambiamento di paradigma nei nostri modelli di società e sviluppo?
La domanda pone l’accento sul “cambio di paradigma”. Anche se il cambiamento è una certezza, parlare di cambio di paradigma potrebbe essere eccessivo. L’aspetto dominante del nostro paradigma di sviluppo è la centralità umana, e non mi aspetto che questo cambi. Non penso che siamo pronti ad abbracciare l’ “ecologia profonda” di Arne Naess nei nostri programmi e attività di sviluppo. Per quanto desiderabile, è improbabile che la reazione alla pandemia sia ri-orientare le nostre azioni pubbliche e private mettendo fine alla centralità degli esseri umani e dando pari diritti a tutte le forme viventi e non viventi.

Significa che torneremo alla vecchia normalità?
No! La “vecchia normalità” funzionava solo per una minoranza della popolazione. Per la maggior parte delle persone, delle culture e dell’ambiente, era molto anormale! Come si può accettare un sistema che, ad esempio, premia i rendimenti astronomici di pochi quando ci sono molti disperati ad un passo dal perdere tutto? Basta guardare cosa sta succedendo a tutti i principali mercati azionari negli ultimi mesi, mentre l’umanità sta lottando contro la pandemia. L’attuale “esuberanza” del mercato azionario non ha alcuna relazione con il crollo dei livelli di occupazione e la crescente miseria sociale. Come può essere moralmente “normale” questo?

Cosa possiamo fare allora?
Dobbiamo prendere sul serio quanto concordato collettivamente. Già nel 1995, più di 193 paesi, compresa l’Italia, hanno firmato l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Era una promessa di impegno per la prosperità economica di tutti nel presente e nel futuro. Una promessa di inclusione sociale per non lasciare indietro nessuno, per mettere fine alla povertà e ridurre la vulnerabilità delle popolazioni più marginali. Una promessa di durevolezza ambientale. Dovremmo esigere dai nostri leader decisioni che promuavono lo Sviluppo sostenibile. Abbiamo certamente bisogno di nuovi approcci: piuttosto che l’economia dell’efficienza, dovremmo cercare di massimizzare il benessere di tutti, a tutte le latitudini e per tutte le etnie. Dobbiamo esaminare le nostre priorità e programmi, sia di ciò che finanziamo che di ciò che sovvenzioniamo. Un buon inizio sarebbe interrogare gli esperti sui modelli e le teorie, e insistere per questo percorso diverso, per sostenere il benessere di tutti.

Il cambiamento climatico riguarda tutti noi e per questo c’è una legittima richiesta da parte dei cittadini di contribuire ai processi decisionali su un tema così cruciale per il nostro futuro. Contemporaneamente, però, ne abbiamo vista l’alta complessità tecnica. C’è una contraddizione?
La libertà di partecipare al processo decisionale collettivo è un valore che incoraggiamo nelle democrazie. Tuttavia, molte decisioni richiedono conoscenze specialistiche che non sono comunemente condivise dalla società in generale. Effettivamente è proprio il caso del cambiamento climatico. Sappiamo che le attività umane stanno creando le condizioni che portano a cambiamenti drammatici nel nostro clima; le nostre decisioni stanno portando a una produzione sempre maggiore di gas serra. Allo stesso tempo, ci sono molte possibilità per ridurre le emissioni. Le decisioni riguardano non solo questioni tecniche, ma richiedono anche la conoscenza delle probabili perturbazioni economiche, degli impatti sociali e delle ricadute politiche.

Può farci degli esempi?
Sicuro! Abbiamo i mezzi tecnologici per catturare il carbonio dall’aria e immagazzinarlo sottoterra (o anche sotto il mare) in “pozzi di carbonio”. Per molti esperti, le principali sfide principali di questi pozzi sono tecniche come, ad esempio, decidere tra la riduzione del fabbisogno energetico o il miglioramento della loro sicurezza a lungo termine. Tuttavia, dobbiamo anche considerare altri aspetti: quali sono le conseguenze di questi pozzi per le persone? Disincentiverebbero gli sforzi nella riduzione delle emissioni di carbonio? Quanto vicino a un’area urbana potrebbero essere installati? Quali processi sono più adatti in un dato ecosistema? E così via. Questo per dire che le decisioni sul serbatoio di carbonio sono anche intimamente legate al diritto delle persone di comprendere una serie di questioni tecniche, ecologiche, economiche e sociali. Piuttosto che una contraddizione, riunire esperti e laici è un elemento fondamentale per una leadership.

Come andrebbe affrontato?
Continuano a esserci pressioni per limitare il processo decisionale a pochi, lontano dalla partecipazione pubblica. Ci sono anche spinte per ignorare la scienza e appoggiarsi all’innata saggezza della folla. Entrambe sono scorciatoie per il disastro. Sebbene la fiducia nella conoscenza degli esperti sia importante, dovrebbe essere all’interno di un quadro che potremmo definire di “fiducia con verifica”, perché mettere in discussione la conoscenza e i processi scientifici è sano, per evitare che restino su torri d’avorio. Scienziati ed esperti spesso hanno un atteggiamento di presunzione, che è ingiustificato. L’impegno attivo di esperti e cittadini, sul cosa, il perché, e il come è segno di buona salute in una società della conoscenza. Dobbiamo richiamare i nostri leader a farsi carico di un sistema del genere, fatto di coinvolgimento attivo nel processo decisionale pubblico.

In Italia, a seguito della pandemia, si discute sulle opportunità offerte dal lavoro da remoto. In particolare, questa potrebbe essere parte di una strategia per mitigare fenomeni come la fuga di cervelli dal Mezzogiorno, l’abbandono delle aree rurali, e anche riequilibrare il rapporto tra centri urbani e periferie. Che idea si è fatto su questo?
Mi permetta di essere provocatorio. Sì, la pandemia, con il suo terribile costo in termini di vite umane, è assolutamente il momento giusto per re-immaginare il nostro futuro collettivo. Da un lato, il lavoro a distanza consente la disconnessione geografica tra lavoro e non-lavoro, perché consente alle persone – sottolineerei, soprattutto ai colletti bianchi – di essere lontane dal luogo di lavoro. Se questo modello dovesse prendere piede, per esempio, tra gli architetti e gli analisti finanziari, sembrerebbe positivo, perché offrirebbe a chi lavora sodo una tregua da una vita in condizioni affollate. Ma dobbiamo considerare anche gli impatti su larga scala.

Quali sarebbero?
Se decine di migliaia di aziende si dedicano al lavoro a distanza, pensiamo ai probabili impatti sulle entrate dei comuni! In che modo un calo delle entrate locali – o addirittura l’incertezza sulla loro raccolta – influirebbe sui servizi urbani alle famiglie che non hanno il lusso di lavorare a distanza? Quali probabili impatti su teatri, parchi e ristoranti – essenziali per una “buona” vita (urbana)? Ancora; che cosa obbligherebbe i datori di lavoro ad assumere solo a livello nazionale? Perché non assumere – a parità di competenze – da altre parti d’Europa, o anche da tutto il mondo, se questo significa abbassare i costi? Il lavoro a distanza è uno strumento a doppio taglio, da usare con cura. La mia principale preoccupazione è l’impatto a lungo termine sulla politica di un lavoro a distanza “di massa”; dobbiamo ancora comprenderlo appieno. Quali impatti sulla vita politica di città, regioni e nazioni? Gli spazi del vivere con le loro dense interazioni intorno alla quotidianità domestica e lavorativa rendono possibile l’appartenenza condivisa a una comunità politica e, all’interno di questa, anche l’impegno in una lotta collettiva per un futuro migliore. Qualsiasi altra cosa è una sorta di esistenza semi-scollegata, senza ormeggi, transitoria, da relitti della globalizzazione e precursori del tribalismo del 21° secolo.

Share via
Copy link
Powered by Social Snap