Ricorrono oggi i cento anni dalla nascita (27 settembre 1920) di Carlo Alberto dalla Chiesa. Quando si incominciano a festeggiare i centenari, l’esercizio della memoria compie un salto di qualità: dalla storia recente alla “grande” storia. Qual è, professore, il posto del Generale nella storia della Repubblica Italiana?
Mio padre sta dentro tutta la storia della Repubblica, non c’è un momento in cui non ce lo trovi. Non per caso, ma perché è lui che si offre in prima linea quando ci sono gli incarichi difficili. O da volontario, perché nessuno risponde alle chiamate del Governo, come quando va a Corleone per combattere le formazioni criminali del bandito Giuliano, o perché il Governo chiama direttamente lui, come dopo l’omicidio di Moro. Quando avevo sedici anni gli chiesero dove avrebbe desiderato andare, una volta promosso colonnello, da Milano, e lui rispose: Bolzano o Palermo, cioè le due postazioni più a rischio in Italia. Una si confrontava con l’allora terrorismo altoatesino, che era molto agguerrito, l’altra con la mafia della Sicilia Occidentale (poi alla fine decise per Palermo). Questo fatto mi colpì molto. Si contano sulle dita di quattro mani le persone che nella storia italiana si sono trovate esposte su tanti fronti: a partire da quando torna dal Montenegro e partecipa alla lotta di liberazione, lo troviamo in tutti i passaggi decisivi della storia della Repubblica. Dagli anni Quaranta ai primi anni Ottanta, lui c’è. A volte per ottenere dei successi, a volte per essere, diciamo così, umiliato.
Per esempio?
Quando c’è l’aria del golpe con Segni, mio padre viene spedito, in un giorno, da Roma alla caserma degli allievi carabinieri di complemento di Torino. Viene messo di fatto fuori servizio.
Diceva dei passaggi decisivi della storia della Repubblica in cui troviamo suo padre, può provare a elencarne qualcuno?
C’è nella lotta al banditismo, non soltanto quello siciliano, ma anche quello campano. Due tipi diversi di banditismo, perché la vicenda di Giuliano costituisce un tema nazionale: alle spalle c’è la minaccia secessionista-indipendentista della Sicilia e c’è la mafia. È un grumo di illegalità che si sostengono l’una con l’altra, minacciando la storia della Repubblica.
Poi?
Negli anni Sessanta lo troviamo a Milano, capitale economica, che conosce le forme di criminalità da benessere: non più la criminalità comune, ma una criminalità arrogante, che chiede ai carabinieri nuove modalità di governo dell’ordine pubblico. Quando viene promosso colonnello, a Milano, è il primo cui danno il comando unificato di Milano e Provincia (prima si divideva il comando del comune capoluogo da quello della provincia), proprio per le sue idee di controllo del territorio, che implicavano una certa unitarietà d’azione, appunto, tra città, hinterland e provincia. Un’altra intuizione di mio padre, in quegli anni, è l’introduzione delle radiomobili, uno strumento di intervento rapido, immediato, ben diverso dalle antiche stazioni dei carabinieri nei paesi (che per altro lui amava).
Anche la storia dei conflitti sociali lo vede presente.
Sì, e non soltanto quando il conflitto sociale si manifesta nella forma acuita e patologica del terrorismo, ma anche quando si tratta del conflitto duro nelle piazze. Non gliel’ho mai sentito dire pubblicamente, ma ricordo che con me lui si vantava di avere accettato anche le biglie lanciate dagli operai della Breda in piazza Duomo, senza reagire, perché sapeva quali erano i problemi sociali che avevano alle spalle. La durezza della repressione inconsulta non ce l’ha nella sua vicenda.
La DIA ha curato la riproduzione in copia anastatica, del Rapporto Sangiorgi (redatto a fine Ottocento dall’allora Questore di Palermo Ermanno Sangiorgi) e del Rapporto dei 114 (che porta la firma dell’allora Colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa e di altri valenti investigatori, redatto un secolo dopo). Il Direttore della DIA ha parlato di due fotografie di una mafia diversa, ma sotto certi punti di vista sempre identica a se stessa. Verrebbe da aggiungere che non solo le fotografie, ma anche i “fotografi” e gli scenari si somigliano: sia Sangiorgi che dalla Chiesa ritornano a Palermo con l’intenzione e il mandato, almeno ufficialmente, di combattere davvero la mafia. Entrambi ce ne lasciano un quadro molto dettagliato (ben prima delle rivelazioni di Buscetta), entrambi incontrano feroci ostilità all’interno degli ambienti che dovrebbero supportarli. Sembra che, in Italia, per quanto riguarda la mafia e la lotta alla mafia, ci sia uno schema che si ripete. Perché?
Si ripete perché la mafia ha una sua identità. Ne ho parlato anche oggi a lezione: il carattere degli italiani non è cambiato. Gli italiani hanno la corruzione in testa. Nonostante tutto quello che è accaduto, nonostante l’educazione alla legalità, nonostante i cambiamenti politici, il passaggio dalla dittatura alla libertà, da una dimensione nazionale autarchica alla dimensione europea internazionale. Corrotti sono nella testa. Gli elementi culturali sono lunghi da cambiare, ma non lunghi nel senso che ci vogliono dieci anni: ci vogliono i secoli. E la mafia, se tu ci pensi, usa sempre lo stesso linguaggio, è quel che dico ai miei studenti.
Quale linguaggio?
La mafia è “terra e fuoco”, due dei quattro elementi della filosofia greca. Sì ma poi, si dice, è passata dal latifondo alla città; ma in città che cosa fa? I piani regolatori, costruisce: sempre la terra. E oggi, in Lombardia? Si occupa di movimento terra. E i rifiuti? Sempre di gestione della terra si tratta. È sempre lì: il cuore del suo potere è la terra. E il suo linguaggio è sempre l’incendio. Non sanno usare un altro linguaggio: gli viene naturale. È la prima cosa che pensano: il fuoco, attraverso l’incendio. Che è la cosa più facile, più vigliacca e la più devastante. La mafia è questo, e poi tutto il resto sono orpelli. A parte che dicono (e scrivono anche) tante fesserie su cambiamenti che non ci sono: dicono che mandano i figli all’estero, nelle scuole migliori, quando invece li fanno laureare con raccomandazione a Reggio Calabria. Uno dei Pelle si è fatto nove esami in quarantacinque giorni. Poi qualcuno che va all’estero a studiare c’è, indubbiamente, ma c’era anche prima. Non è che adesso ci sono falangi di figli di mafiosi che vanno a studiare a Oxford e a Boston. Un’altra che dicono è che, adesso, vanno in giro “in doppio petto”… ma sai che ho rivisto le scene del maxiprocesso: sono tutti nelle gabbie con la cravatta. Soprattutto nel processo di Agrigento: sono tutti nelle gabbie con giacca e cravatta.
#EranoSemi è l’hashtag di una di una bella campagna comunicativa di WikiMafia, dedicata alle vittime innocenti di tutte le mafie. Anche il Generale dalla Chiesa si è rivelato, contro il pronostico dei suoi carnefici, “un seme”. Quali frutti ha dato?
Intanto il primato delle istituzioni su tutto: la sua scuola è questa. E la famiglia non si contrappone all’istituzione: la famiglia serve a dare più forza a chi rappresenta l’istituzione e serve per educare nuove generazioni a rispettare l’istituzione. Noi viviamo questo rapporto in modo alternativo: o curi la famiglia o curi il bene pubblico. “Ma che cosa state dicendo?”, sembra rispondere mio padre con la sua esperienza: “La mia famiglia mi ha aiutato a difendere le istituzioni e io ho insegnato in famiglia che bisogna difendere le istituzioni”. Questa credo che sia una grande lezione dal punto di vista dell’antropologia politica e dell’antropologia della cultura civile.
Il generale viene ricordato anche per la sua straordinaria capacità di costruire squadre.
È sua la lezione del saper affrontare i grandi problemi “con quello che c’è”. Ma chi avrebbe mai pensato che l’analisi del terrorismo sarebbe stata più lucida in giovanissimi sottufficiali che venivano dal Sud che in grandi intellettuali che insegnavano nelle università del Nord? Mio padre è riuscito a mettere insieme persone che non avevano un alto grado di istruzione e le ha condotte a produrre fatti di altissimo livello. Perché quei carabinieri, quando arrivavano qui (spesso venendo da paesi del Sud), non è che avessero studiato pane e politica, non è che avessero studiato storia delle ideologie politiche, ma imparavano a mettersi al servizio di un progetto che non riusciva ad avvalersi delle migliori intelligenze del Paese, questo è un dato di fatto.
Cosa ha insegnato?
Ha insegnato che a volte le cose grandi si fanno con persone piccole per noi, che evidenziano la loro grandezza nel momento in cui si impegnano e ottengono dei risultati. Se qualcuno mi dovesse chiedere chi capiva davvero il terrorismo allora, risponderei che pochissimi intellettuali capivano il terrorismo, pochissimi. Perché c’erano quelli che sposavano la tesi che il terrorismo sarebbe diventato una variabile costante nella politica europea; c’erano quelli che erano convinti che fosse l’effetto dello sfruttamento in fabbrica. Mio padre ne diede un’altra analisi, i suoi ne diedero un’altra analisi, e fu un’analisi vincente: era un’idea di presa del potere. Che non nasceva né dallo sfruttamento in fabbrica né da una condizione quasi fatale della politica in Europa alla fine del Novecento. Per me è stato importante, è stato un maestro per tanti aspetti, anche, anzi soprattutto, quando non voleva esserlo: le persone le vedi agire, le vedi pensare. E impari.