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Il virus presidenziale

Spiace ad ogni coscienza libera che un uomo, sia pure il peggiore Presidente della storia degli Stati Uniti d’America, si ammali. Specie di una malattia potenzialmente letale per un uomo avanti negli anni e in non perfetta forma fisica come lui. Gli si auguri dunque il più pronto e completo ristabilimento.

Certo è però che la malattia, e questa in particolare, è un durissimo colpo alla spocchiosa e sfottente supponenza con la quale condiva le rappresentazioni del proprio corpo, è una ferita profonda inflitta alla strafottenza dell’invincibilità che egli opponeva alle misure di prevenzione e alle cautele, ed è una batosta simbolica al discredito della scienza a cui tutti i populismi e sovranismi del mondo sono quotidianamente tentati di lisciare il pelo.

Probabilmente il fatto, e in special modo i suoi sviluppi, influirà in una qualche misura sul risultato elettorale. Ma quello che pare davvero rivelatore è che a contagiarsi ad un mese dalla conclusione della campagna elettorale, a dovere infine ammettere cotanta vulnerabilità, è chi, durante il dibattito con l’avversario, orgogliosamente sfilava di tasca la mascherina rivendicando di sapere da sé quando fosse il caso d’indossarla e quando no. A quanto pare non lo sapeva.

La vita politica di coloro che giocano al rilancio perenne è sempre appesa alla tempistica degli avvenimenti. Così quando il politico gioca d’azzardo questo è il rischio: che l’imprevisto gli si cacci in gola e lo metta a tacere. Non che atteggiamenti politicamente più sobri escludano del tutto il rischio dell’imprevisto, ma certo non espongono a tali devastanti conseguenze. Un po’ come con il virus: andare in giro con la mascherina non è elegante né confortevole, ma lo è ancor meno finire in terapia intensiva o perdere le presidenziali.

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