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Ranieri Guerra: abbiamo sbagliato la comunicazione con i ragazzi. L’epidemia non è ancora nella sua fase più acuta

di Emanuele Raco e Eugenio Barone *

Dopo una apparente tregua estiva il covid-19 sembra essere tornato in modo molto violento.
Tutti i virus respiratori, a prescindere dalle caratteristiche di virulenza che questo ha dimostrato, si diffondono in modo molto prevedibile. D’estate si vive molto di più all’aperto, d’autunno e d’inverno gli spazi sono limitati e la diffusione del virus aumenta. E’ quello che stiamo vivendo in questi giorni. Il virus ha colpito molto gravemente all’inizio e poi è andato giù grazie al lockdown, alla desertificazione di fatto delle nostre città. Questo ha determinato il calo repentino della circolazione del virus a fine maggio. Il virus si è mantenuto a bassissima circolazione durante i mesi estivi, tranne alcuni focolai determinati da qualche apertura dissennata di discoteche o qualche assembramento di persone che pensavano che il virus facesse sconti, che fosse scomparso, che non fosse più così contagioso come inizialmente aveva dimostrato. Adesso siamo in una fase in cui riaprono le scuole, si riprende il lavoro, la pubblica amministrazione riprende il lavoro in presenza dopo aver fatto prevalentemente lavoro smart, quindi inevitabilmente le occasioni di contagio aumentano ed è proprio adesso che dobbiamo stare particolarmente attenti.

Come mai l’Italia sembra avere una diffusione ancora contenuta rispetto ad altre nazioni come Spagna, Francia e Inghilterra? E’ il risultato dei comportamenti virtuosi delle scorse settimane? Dobbiamo aspettarci un forte aumento a breve?
E’ il risultato combinato di un’azione di governo, di una consapevolezza sociale molto diffusa. La consapevolezza sociale è quella che ancora non ha dimenticato la forza d’urto iniziale del virus e le immagini devastanti che abbiamo visto durante il primo mese. La coscienza sociale è quella che disciplina, mantiene le distanze, indossa la maschera quando deve essere indossata e ricorda di lavare le mani e mantenere una igiene personale elevata. L’azione di governo è quella che facilita tutto questo con una distribuzione massiccia di dispositivi sanitari di sicurezza tra la popolazione e gli operatori sanitari; che ha aumentato notevolmente la disponibilità di posti letto e di personale destinato all’identificazione rapidissima di possibili focolai, con l’estinzione di questi focolai attraverso la quarantena e l’isolamento.

Sbagliano i paesi che pensano di ridurre la quarantena a una settimana?
La quarantena è una cosa diversa dall’isolamento. La quarantena per noi rimane a 14 giorni. Può essere ridotta in alcuni casi a 10 giorni più un tampone negativo. La Francia è passata al dimezzamento, a 7 giorni. Questo secondo noi è un provvedimento non basato su alcun tipo di evidenza ma semplicemente su un dato sorprendente, di natura socio-antropologica: i colleghi francesi affermano che i francesi non accettano una quarantena di 14 giorni. La quarantena da loro non è obbligatoria, è semplicemente raccomandata, quindi hanno cercato di limitare i danni proponendo sette giorni nella speranza che molte più persone possano rispettarla. Non ha una base scientifica. Per quanto riguarda l’isolamento siamo sempre di fronte a due opzioni: o l’opzione clinica di dieci giorni dalla diagnosi più tre giorni di totale asintomatologia – per i casi diagnosticati positivi, non per i contatti – oppure l’esecuzione classica dei due tamponi a 24 ore di distanza.

C’è una grande pressione da parte dello sport per non fermarsi. Per lei la priorità resta la scuola? E’ meglio consigliare prudenza allo sport?
E’ un po’ la storia di tutti i settori che portano interesse. Capisco perfettamente cosa il mondo dello sport voglia e come voglia riaprire, perché è l’aspirazione di tutti quanti i settori. Io credo nella strategia dei piccoli passi progressivi adottata dal nostro Paese. La mia agenzia ha sempre raccomandato fortemente che per le riaperture si potesse dosare una valutazione di rischio accanto a un periodo quarantenale di 14 giorni, per valutare l’impatto che la riapertura può avere sulla ricircolazione del virus. In questo momento siamo con le scuole, le università e gli asili che hanno riaperto e mi sembra che questa sia una priorità assoluta del Paese, anche dal punto di vista etico. Siamo in una situazione in cui se riapriamo tutto senza capire prima cosa può succedere, dandoci uno o due periodi di incubazione, rischiamo di dare un carico alla circolazione del virus nelle nostre comunità che poi diventa poco facile da contenere.

Insomma, proprio nel momento in cui la scuola sta tenendo non possiamo rischiare. Giusto?
I ragazzi che tornano a scuola molto spesso sono asintomatici, non vengono intercettati da un sistema di monitoraggio che si basa sulla sintomatologia e su una diagnosi prima clinica e poi di laboratorio. Questo può anche darsi che possa diventare veicolo inconsapevole e incolpevole di un ingresso del virus nelle famiglie. Non è per stimolare allarme ma per dire che può accadere. Facendo due conti, se questo accade, sono 14 giorni di incubazione per un ragazzo che potrebbe diventare positivo e altri 14 giorni di incubazione per familiari che possono essere potenzialmente esposti. Io credo che il discorso degli stadi si possa riproporre nel momento in cui avremo chiaro cosa stia succedendo realmente in questi giorni, ovvero non prima della terza settimana di ottobre.

E’ pensabile che si possa arrivare a un nuovo lockdown generale?
E’ una situazione completamente diversa rispetto all’inizio. C’è stato uno sforzo gigantesco da parte del Paese. Ci sono dipartimenti di prevenzione molto competenti e molto attivi a livello territoriale. C’è la medicina di famiglia, la pediatria di libera scelta che ha una consapevolezza del problema molto superiore rispetto a prima. Abbiamo diagnostica e terapia completamente diversa rispetto al nulla iniziale, protocolli di protezione che prima non esistevano o se esistevano non erano applicati in maniera perfetta come è stato durante lo svolgimento dell’epidemia. Direi che la decisione estrema di chiudere tutto può avvenire nel momento in cui non c’è più la possibilità di controllare l’andamento dell’epidemia. Al momento abbiamo tutti gli strumenti per poterla controllare, per poter dilazionare l’impatto sul sistema ospedaliero, che peraltro è stato potentemente rafforzato.

Insomma, dipende molto anche da noi.
Si, dipende molto da noi. Il Covid-19, come dicevamo, non è un virus intelligente, è un virus che si basa sulla stupidità dei nostri comportamenti. Quanto più intelligente è il nostro comportamento tanto è meno probabile che il virus attecchisca e circoli. Io credo che sia molto poco probabile che si possa andare verso una chiusura generalizzata. Credo anche che ci saranno poche chiusure localizzate, perché mi sembra di vedere una grande disciplina da parte dei cittadini.

Qual è l’errore più grande che abbiamo commesso?
Abbiamo sbagliato la comunicazione con i ragazzi, gli abbiamo detto che non si sarebbero ammalati, che avrebbero contratto il virus ma non avrebbero avuto bisogno di assistenza ospedaliera o comunque di una assistenza sanitaria particolarmente seria e articolata. Questo è stato un errore perché i ragazzi hanno filtrato questa comunicazione e hanno pensato di essere completamente indenni e di non rappresentare neppure un pericolo oltre che per sé anche per gli altri, cosa che non è vera: abbiamo visto cosa è successo con le discoteche. Questo iniziale messaggio è stato progressivamente corretto. Vedo entrare molta disciplina anche tra ragazzi che precedentemente la pensavano diversamente. Segno che la consapevolezza tra la gente è aumentata e si mantiene.

C’è chi denuncia una scorta insufficiente di vaccino antinfluenzale. E’ un pericolo reale?
Io credo che il ministero con le regioni stiano approvvigionandosi in maniera più che sufficiente. E’ sempre una questione logistica, di distribuzione delle dosi di vaccino e di capillarità in questa distribuzione tale per cui chi ha necessità di accedere lo può fare senza problematiche e senza ostacoli. Il problema vero è che il vaccino influenzale si basa sulla previsione di quelli che saranno i ceppi virali circolanti con maggiore probabilità. Diciamo che non sarà comunque mai un vaccino che copre al cento per cento perché i ceppi virali sono molteplici.

Il vaccino come atto di responsabilità?
Precisamente. La popolazione deve vaccinarsi non soltanto per sé ma anche e soprattutto per gli altri. E’ veramente una delle più grandi manifestazioni di solidarietà e di consapevolezza di vivere civile e associato che ci possa essere. In più farà calare il rumore di fondo perché è ovvio che nel momento in cui abbiamo una popolazione vaccinata contro l’influenza stagionale la sintomatologia clinica molto simile col covid potrà essere trattata con la dovuta serietà e immediatamente senza perdere tempo in una diagnostica differenziale che porta sempre via un po’ di tempo.

La Russia e la Cina hanno dichiarato di essere già nella fase di produzione del vaccino. L’Europa e gli Stati Uniti sono invece in attesa di concludere la cosiddetta Fase-3. Qual è la reale situazione nella ricerca e produzione del vaccino contro il covid-19?
Anche la Russia e la Cina non sono fuori dalla Fase-3, l’hanno semplificata molto utilizzando l’esercito come popolazione di Fase-3. La mia Agenzia è in contatto stretto con i ricercatori e con i due governi che hanno iniziato questo tipo di approccio. Io continuo a ripetere che non ci sono scorciatoie. Un vaccino deve passare necessariamente attraverso le fasi di verifica, di efficacia in ultima analisi ma anche di innocuità, perché non vogliamo certo iniettarci materiale che poi possa darci problematiche di qualsiasi tipo. Ci sono 4 vaccini in Fase-3 avanzata, quasi pronti per una valutazione di registrazione con gli organi regolatori. Ce ne sono altri 30 in fase clinica avanzata e circa 140, il numero cresce tutti i giorni, di potenziali candidati in fase pre clinica.

Seguono tutti lo stesso tipo di approccio?
Ci sono diversi approcci e questo è un ambito estremamente interessante anche per il futuro della vaccinologia. Abbiamo vaccini con virus inattivati con un approccio molto classico e vaccini con RNA o DNA che rappresenta un approccio completamente diverso rispetto al passato. Vediamo che cosa succede. Io credo molto in questi ultimi perché hanno una capacità di innovazione e soprattutto di stimolo dell’immunità naturale da parte del corpo umano che sarà assolutamente prioritario riuscire a capire, anche perché potrebbe essere la strada del futuro anche per i vaccini ordinari. Potremmo avere un impatto per la conoscenza scientifica che va ben oltre questo singolo virus.

Sui tempi che previsioni ritiene di poter fare?
Io sono convinto che per la fine dell’anno o i primi mesi del prossimo anno avremo dei vaccini registrati e regolati. Ci sono altre incognite da tenere in considerazione: la durata dell’immunità indotta, la capacità di distribuzione, la produzione industriale, il raggiungimento di tutti quelli che sono eleggibili per la vaccinazione. Il sistema delle Nazioni Unite ha messo in piedi una iniziativa che si chiama Covax, che ha come obiettivo la garanzia di vaccinare alcuni miliardi di persone entro la fine del 2021. Il problema non sarà tanto sulla parte scientifica quanto su quella industriale e logistica, sulla capacità cioè di produrre una quantità così elevata di vaccini a un costo che non sia una speculazione o un ricatto di natura economico-finanziaria ma che rappresenti il bene pubblico, di cui il vaccino è l’immagine.

L’OMS è stata accusata di aver dato indicazioni in alcuni casi contraddittorie. Condivide?
E’ un po’ tutta la scienza che si muove lenta rispetto alla velocità di trasmissione di questo virus. L’OMS funziona grazie alla collaborazione intensa da parte degli scienziati e dei ricercatori delle accademie di tutto il mondo. Non prende decisioni che non siano supportate da una evidenza scientifica seria, concreta e consolidata. Questo a posteriori può apparire come un inutile passaggio burocratico ma la certezza che poi ne deriva o la probabilità elevata che quanto andiamo a raccontare sia effettivamente vero, sia valido e utilizzabile, vale il prezzo di una certa lentezza rispetto a chi invece la racconta più facile.

Qualche volta sono i ricercatori ad anticipare troppo i tempi?
Le ipotesi che vengono sollevate da molti ricercatori vanno poi valutate con metodo scientifico. Non c’è nulla di male che qualche singolo ricercatore proponga e porti delle novità alla valutazione del metodo scientifico, che per noi è l’unico valido. Accanto a queste accuse, siamo arrivati in sette mesi ad avere delle conoscenze che sono incredibilmente più avanzate di quello che sarebbe stato nel passato. Questo è un virus che ha dato un colpo di accelerazione senza precedenti nella storia. Per la mia agenzia vale un solo commento: il 30 gennaio il direttore generale Tedros ha annunciato l’emergenza di sanità pubblica internazionale. Il 30 gennaio. Che cosa sia poi successo credo sia sotto gli occhi di tutti.

E’ sbagliato il tentativo di alcuni leader di politicizzare la lotta al virus?
Noi continuiamo a ripetere che l’epidemia non è finita. In certo modo l’epidemia non è ancora nella sua fase più acuta. L’allarme che è stato suonato inizialmente con un campanello è diventato progressivamente una campana. L’errore principale che si possa fare in questi casi è di politicizzare la ricerca scientifica, la ricerca di un vaccino, le metodiche di contenimento di un’epidemia. Questa è una epidemia che non ha colori. Non ha colore neppure le capacità di risposta dei vari paesi. Io non concordo col fatto che qualcuno accusi la destra o la sinistra di aver preso provvedimenti più o meno efficaci. Anche nel nostro Paese abbiamo amministrazioni cosiddette di destra che hanno preso provvedimenti estremamente efficaci e amministrazioni regionali cosiddette di sinistra che ne hanno prese di altrettanto efficaci. Credo che sia la conoscenza e la saggezza dell’amministratore, credo che sia il livello di coesione e di collaborazione tra i vari livelli dell’amministrazione che hanno portato i risultati positivi che abbiamo avuto.

La Fondazione Luigi Einaudi ha chiesto di conoscere i verbali del CTS alla base dei DPCM che hanno governato la fase pandemica. Lei crede che sia corretto rendere pubblici i documenti che hanno indotto e continueranno a determinare scelte così importanti per la libertà e la salute dei cittadini?
Penso di si ma si tratta di fasi progressive. Nel momento in cui si abbatte contro una società, non proprio preparata a un evento del genere, un uragano di questa natura, forse la divulgazione completa può non essere indicata. Io sono ospite all’interno del CTS. Sono italiano, ci tengo ad esserlo ma appartengo a un’altra amministrazione, per cui non entro in una critica o in un incoraggiamento rispetto a percorsi presi con estrema consapevolezza e con una discussione molto approfondita. Queste non sono decisioni che vengono prese alla leggera, ma sono ragionate e ponderate. E’ altrettanto chiaro che l’emergenza, nel momento in cui parte, deve essere comunicata alla popolazione, perché altrimenti un governo da solo, senza la collaborazione consapevole della gente, non ce la potrà mai fare. E’ quello che è avvenuto.

Dopo tanti mesi sono maturi i tempi per fare tutto con la massima trasparenza?
In questo momento siamo tutti molto maturi per avere sia la possibilità di divulgare, da parte dei governi, che quella di leggere, capire e comprendere da parte dei cittadini, che devono rendersi consapevoli, partecipi e collaboratori di quanto gli organi di governo sono indotti a raccomandare a livello di comportamento individuale e di società. E’ un’alleanza che si deve formare, una collaborazione molto profonda tra società civile e pubblica amministrazione.

Conviene con noi che la scienza non sempre è riuscita a comunicare bene?
La scienza ha qualche difficoltà a comunicare bene. Spesso il ricercatore scrive un articolo e pensa che sia finita lì. Non è così. Chi fa sanità pubblica sa perfettamente che la ricerca è una parte della storia. Poi bisogna realizzare quello che la raccomandazione scientifica dispone e fare in modo che il tutto non passi sopra la testa della gente. Quella dei terrapiattisti ad esempio è una scoperta sociologica e antropologica che non avremmo mai voluto fare. Per questo dobbiamo parlare un linguaggio che sia comprensibile. Per concludere, penso che secretare non contribuisca a disinnescare la teoria dei complotti che è costantemente tra di noi ed è una tale scemenza che può essere combattuta solo tramite la visibilità e la trasparenza degli atti, la giustificazione continua di quello che viene proposto e realizzato.

  • intervista rilasciata il 30.09.2020
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