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Alberto Zangrillo: ok a lockdown mirati, che non creino ulteriore disagio. Per contenere la pandemia serve senso di responsabilità

A fine maggio c’era l’impressione che l’emergenza fosse finita, tanto che lei ha parlato di virus in ritirata. Invece è tornato prepotentemente. Che succede?
Avevo anche detto, qualche tempo prima, che dovevamo imparare a conviverci, perché tutti i virus in qualche modo si comportano come il Covid. Vorrei chiarire che non si tratta di un fenomeno italiano. Noi ne parliamo come se fosse solo una questione interna ai nostri confini, mentre dobbiamo essere un po’ più internazionali anche per condividere un problema che non appartiene soltanto a noi. Io il tre di maggio avevo affermato, guardando attentamente la clinica da ormai decine di giorni, che il virus stesse battendo in ritirata. A questa mia dichiarazione son seguite delle reazioni anche speculative, ma faccio mio un certo diritto di primogenitura perché avevo capito che tutti i proclami, sull’arrivo del vaccino e della terapia specifica, non appartenevano ad un pensiero razionale. Quello che sta avvenendo ce lo conferma. Il vaccino deve arrivare un po’ per tutti o comunque per una larga fetta della popolazione, altrimenti non serve. Inoltre, per essere efficace e sicuro, necessita di tempi che non possiamo eludere. La terapia specifica d’altro canto purtroppo non c’è, anche se abbiamo fatto notevolissimi progressi.

L’impressione è che l’Italia si sia trovata abbastanza impreparata all’arrivo di questa seconda fase. Ci sono stati degli errori? Se sì, quali? E chi li ha commessi?
La preparazione ad un fenomeno pandemico come questo viene divisa in due settori fondamentali. Il primo riguarda la capacità di organizzarsi e reagire, di predisporre un modello come quello che, al netto della tragedia, ci ha distinto rispetto agli altri Paesi. Ricordiamo che siamo stati il primo Paese occidentale colpito. Poi c’è un altro livello, che riguarda la capacità di avere un sistema sanitario strutturato. Il nostro sistema sanitario non è organizzato per dare risposte compiute. Non è assolutamente colpa di questo governo, come non lo è di quello che lo ha preceduto. È colpa della storia, della politica italiana degli ultimi trenta o quarant’anni, durante i quali abbiamo sempre cercato di dare sostegno economico a iniziative che poi non riuscivamo a controllare nel loro sviluppo. Di conseguenza si è sempre più prodotto un distanziamento, anche sociale, ma in questo caso di offerta sanitaria.

C’è differenza tra regione e regione?
Non bisogna nascondersi dietro un dito: l’offerta sanitaria del Nord è diversa da quella del Sud, lo dobbiamo dire con molto rispetto e molta consapevolezza. Così come la lotta al virus aumenta le distanze sociali, dobbiamo purtroppo dire che noi non siamo preparati. Quello che viene a mancare è soprattutto la strutturazione del sistema sanitario territoriale: quando la gente arriva in ospedale è perché non trova risposta nelle tappe precedenti. Per quale motivo? Perché non esistono, perché non sono sufficienti, perché non sono culturalmente al passo, perché c’è qualcuno che si tira indietro o non controlla? Tante cose. Dobbiamo intraprendere al più presto un piano strategico strutturato, pluriennale, per cercare di dare delle risposte progressive a tutte le nostre lacune.

Ci spiega in modo semplice la differenza tra chi è positivo, chi è contagiato e chi è malato di Covid?
È molto importante distinguere le tre categorie distinte. Possiamo definire positivo chi è venuto a contatto con il virus ed è risultato appunto positivo al tracciamento. Poi c’è la seconda categoria, che è quella dei positivi contagiati, che sono coloro che sviluppano una forma clinica, sintomatica, che può essere lieve, media o di grave entità. Infine c’è la categoria dei malati in fase conclamata. Io direi che la prima categoria, quella dei positivi non contagiati, e la seconda, limitatamente alla forma lieve, sono quelle che prevalgono dal punto di vista percentuale. Certo è difficile fare i conti con questa realtà, perché esiste ancora molta incertezza sul fatto che una persona che risulti soltanto positivo al test possa essere meno contagiante verso altri.

Ripetiamo quali sono le raccomandazioni principali?
Dobbiamo tenere in grande considerazione tutte le norme che ci sono state suggerite e in particolar modo quelle del buon senso. Noi insistiamo sulla necessità di indossare le mascherine e di lavarci continuamente le mani, ma non basta perché talvolta anche un uso non corretto della mascherine induce al contagio: possiamo toccarne involontariamente la superficie esterna, che magari è stata esposta al veicolo del contagio, poi magari ci tocchiamo gli occhi, il naso o la bocca, e cinque o sei giorni dopo abbiamo un inizio di sintomatologia. E magari ci domandiamo come possa essere possibile, avendo noi sempre indossato la mascherina.

Quindi occorre cambiarla spesso?
Sì, ma anche maneggiarla con molta cura. Poi ci sono dei controsensi. Per esempio un mio caro amico che fa il medico a Miami mi dice che in televisione da lui fanno vedere il paradosso italiano, secondo cui ci sono restrizioni e misure severe, ma poi inquadrano un pullman, dove la gente si accalca per salire, o le funivie di Cervinia o la metro di Roma e Milano. Alla fine ci vuole giudizio e buon senso. Oltre a rispettare le regole che ci vengono suggerite, noi riusciremo a dare una mano fondamentale a tutto il sistema se ci comporteremo con sacro e responsabile buon senso, cosa che purtroppo non accade.

Lei ripete spesso che è fondamentale la diagnosi preventiva. È una buona idea quella di non fare i tamponi agli asintomatici, che sembra essere la strada intrapresa da molte regioni?
Quello che noi tutti notiamo in questi giorni è che, purtroppo, la misura della certificazione di uno stato attraverso l’esecuzione di un tampone è interpretata come misura terapeutica. Faccio un esempio: io faccio un tampone perché voglio sapere se sono positivo o meno, magari perché ho qualche linea di febbre. Qui ci sono dei paradossi bestiali, perché per le persone normali fare il tampone equivale a volte a giorni di attesa: così si rischia che la malattia faccia il suo corso sintomatologico prima di essere riconosciuta. Il tampone fatto a casaccio, come tanti epidemiologi prima di me hanno dimostrato, può non avere un senso, e probabilmente non ce l’ha.

A cosa serve e quando fa fatto un tampone?
Il tampone serve per tracciare, per avere delle evidenze che siano utili a isolare determinati cluster, determinati nuclei sociali o familiari. Il tampone fatto per stare più tranquilli è un non senso. Io sono testimone di centinaia di casi di persone che, tamponate e risultate negative, dopo un paio di ore o di giorni non erano più in quella situazione, perché magari nel frattempo non si erano comportati con giudizio. Quindi il fare il tampone per stare tranquilli è una forma di allentamento delle misure di tutela verso se stessi ma soprattutto verso il prossimo. Come sempre richiamo al buon senso e ad un buon utilizzo delle strutture sanitarie, soprattutto perché, quando queste vengono a mancare, esponiamo coloro che veramente ne hanno bisogno al rischio di non poterne usufruire.

Lei ha denunciato il “metodo della paura”. Di che si tratta?
Ricevo una media di cento telefonate al giorno da conoscenti, colleghi e amici. O magari da persone che in qualche modo riescono a raggiungere i miei contatti. Anche se faccio molta fatica a rispondere non mi sottraggo, perché lo considero in questo momento un dovere sociale. Il mio primo obiettivo è quello di tranquillizzare queste persone, cercare di farle ragionare in un contesto di razionalità. C’è tanta disinformazione che nasce soprattutto, consentitemi di dirlo, da un desiderio inconfessato, ma in qualche modo plausibile, di vendere un prodotto. Il trenta o quaranta per cento del nostro mandato quotidiano, di qualunque medico, di qualunque addetto ai lavori, è quello di tranquillizzare, di razionalizzare. Vedo veramente tante persone che rischiano di ammalarsi di paura, che rischiano di ammalarsi di incertezza, che rischiano di ammalarsi per la totale sfiducia: si sentono abbandonate e frustrate.

Prova a trasmettere tranquillità?
Si. Dopodiché c’è il passaggio successivo, che è quello di comprendere quando è necessario cercare di orientare una persona a rimanere al domicilio o suggerirle di andare in ospedale. Certo, io credo fermamente in quello che poi viene tradotto in termini troppo semplicistici in ottimismo: “Zangrillo l’ottimista”. Ma insomma, se tu hai un paziente con una malattia cronica neoplastica che segna la sua prognosi in termini che non possiamo preconizzare, che cosa fai a questa persona? Cerchi di curarla ma anche di darle sostegno psicologico, mentale, altrimenti si perde. Altrimenti anche la migliore delle medicine rischia di essere vana.

Le proiezioni degli esperti dicono che tra qualche settimana le nostre terapie intensive potrebbero essere colme. Forse lo saranno anche per via della paura di cui lei parla. Come bisogna fare per guidare i medici di famiglia a tenere a casa chi può essere gestito a domicilio senza andare in ospedale?
Il mio gruppo aveva postulato, lo avevo ideato io, il protocollo P.O.S.TE., acronimo di prudenza, osservazione, sorveglianza, tempestività. Per essere tempestivi occorre avere cognizione di quando e come intervenire. Nella prima fase il territorio poteva avere tutti gli alibi del mondo, ma in questa seconda fase ne ha molti di meno, perché c’è stato tutto il tempo per prepararsi sull’assistenza di tipo basico. Quello che noi vediamo, e che vi confermo, perché sono dati che ho estrapolato proprio questa mattina con l’aiuto dei miei collaboratori, è che il sessantacinque per cento di coloro che arrivano in un pronto soccorso come il nostro, che è un pronto soccorso di un’area metropolitana, viene mandato a casa entro nove ore.

E le terapie intensive?
Ci arrivo. Sia chiaro, io sono estremamente preoccupato, perché ricordo una volta per tutte e a tutti che sono stato tra i più colpiti nella prima fase, non sono andato a casa per due mesi. Non mi piace ritornare in quella situazione, però dobbiamo seguire rigorosamente una procedura di ricovero esatta, non possiamo cioè ricoverare in terapia intensiva chi non ha bisogno della terapia intensiva. È evidente che se in un caotico ospedale di una qualche zona d’Italia c’è un afflusso immediato ed emergenziale di pazienti e non sai più dove metterli ti inventi anche la terapia intensiva, ma in quel momento devi ricordare che sottrai questa straordinaria risorsa a chi ne ha realmente bisogno. Prima ho fatto il richiamo al buon senso, adesso devo fare richiamo al senso di responsabilità. Tutti noi, che abbiamo una fetta più o meno grande di risorse in mano, dobbiamo cercare di utilizzarla al meglio, con una visione di tipo sociale di quello che sta accadendo. Tutto quello che sta avvenendo dipende dall’evoluzione dell’epidemia, da quello che farà il virus, ma anche da come ci comportiamo nelle nostre scelte quotidiane.

Questi ritardi, questa impreparazione del territorio, che evidentemente doveva essere realizzata nei mesi estivi, quando la pandemia sarà passata dovrà essere processata. Dove si è fermata la macchina?
Si è bloccata su alcuni passaggi che non sono stati chiariti. Al netto di quello che abbiamo già detto, e cioè che manca un piano strategico, un programma nazionale, un’organizzazione razionale del sistema, penso che la signora Merkel, quando parla, sa di poter contare su un sistema organizzato. Il povero presidente del Consiglio nostro, chiunque sia, non può contare su un tessuto sociale e su un livello di organizzazione come quello tedesco. Per questo il presidente Conte ha davvero tutta la mia comprensione.

E allora dove abbiamo fallito?
Abbiamo fallito nel pensare, ad esempio, che fosse sufficiente fornire 1.300 ventilatori a un sistema come quello sanitario regionale italiano. È come dire: guarda, questo è un ventilatore, questo è il bottone, si usa in questo modo, si connette in quest’altro modo, lo puoi tenere anche nel tuo garage. Il problema è quello di un sistema organizzato che alla base deve avere la cultura e la consapevolezza di ciò che si sta facendo, che deve poter contare su un gruppo di lavoro. Io con i miei medici comunico con uno schiocco di ciglia; la caposala che gestisce gli infermieri delle mie terapie intensive non perde tempo a parlare perché conosce benissimo quali sono le priorità. Mettere a livello ottimale tutto il sistema richiede anni. Purtroppo un’estate non è bastata. Devo anche dire che dai prodromi di quello che è stato fatto quest’estate siamo partiti col piede sbagliato.

Negli ultimi giorni abbiamo visto moltiplicarsi le manifestazioni dei cittadini nelle piazze. Si è rotto qualcosa rispetto alla solidarietà di marzo?
È un commento che ho fatto con i miei collaboratori. A marzo eravamo come drogati, non avvertivamo la fatica, sentivamo un grande impulso, un grande stimolo a dare il massimo, eravamo colpiti da questa sfida che sentivamo nostra e dovevamo vincere. Ora siamo tutti più stanchi, un po’ demotivati. Il tempo che è passato, invece di caricarci ci ha un po’ demotivato. Il tempo che in qualche modo abbiamo perso durante il periodo estivo ci porta a considerare che noi siamo sempre qui, siamo gli stessi, con i nostri mezzi e forse c’è chi poteva fare qualcosa di più, di diverso, di più incisivo. Questo sicuramente è vero. Poi tutti sanno che il perdurare di situazioni di crisi quale questa aumentano le diseguaglianze. Ormai è stato dimostrato che Bill Gates è sempre più ricco e Mario Rossi è sempre più povero. Ho detto Bill Gates senza pensare ai vaccini quindi facciamo Jeff Bezos o chiunque altro. C’è tutta una categoria di persone che ha paura, che si sente poco assistita.

C’è una categoria simbolo?
Penso ai tassisti ad esempio come termometro del disagio sociale. Il tassista fermo, in coda per lunghe ore è la misura del fatto che la società è morta. Abbiamo sentito delle determinazioni importanti da parte del Governo, abbiamo assistito per la prima volta dei ministri garantire che sarà effettuato un accredito diretto sui conti bancari. Credo che ce ne sia bisogno ma bisogna fare molta attenzione, perché tutte queste misure, se non controllate opportunamente, rischiano di creare ancora maggiore distanziamento. Perché ci saranno coloro che ne beneficeranno e altri, magari solo perché meno informati, che ne saranno esclusi. Quindi al netto della grande determinazione nel voler condannare ogni forma di violenza verbale e fisica, è come se il cittadino in questo momento avesse esaurito l’apertura di credito verso coloro che hanno il compito di salvaguardarci.

Alcuni comportamenti poco chiari emanati dal governo non sembrano andare nella direzione da lei auspicata. Ci aiuta a capire le finalità delle disposizioni contenute nell’ultimo DPCM? Qual è il senso delle chiusure alle 18 di molte attività?
Penso che il disagio e ogni forma di insofferenza, di rifiuto delle misure intraprese, sia direttamente correlata alla razionalità che noi riusciamo a leggere in ogni forma di provvedimento. Anche in questo caso non posso fare a meno di fare un appello al buonsenso di tutti. Abbiamo parlato dei tassisti, ma pensiamo ai ristoratori. Certe misure evidentemente sono state prese contando sul fatto che gli italiani sono un popolo che invece di essere educato a volte merita di essere punito: “non ti sei comportato bene, il risultato è questo e adesso io ti chiudo”.

Una punizione che in molti non meritano.
Io sono sempre più certo che gli italiani, soprattutto i giovani, hanno una grande coscienza civile. I giovani sono il tessuto sociale di tutte le forme di volontariato, nelle sue varie declinazioni. Non siamo stati bravi a comunicare loro l’esigenza di difendere gli anziani, che poi sono i loro genitori e i loro nonni. Proteggerli vuol dire mettere a loro disposizione tutto quello che a loro serve senza esporli a rischi. Questo non è accaduto.

Abbiamo davvero sbagliato la comunicazione nei confronti dei giovani.
Si, totalmente. Gli abbiamo fatto credere che loro erano immuni. Gli abbiamo fatto credere che era colpa loro. Non sto parlando delle discoteche ma di tutte quelle forme di aggregazione in cui i giovani si muovono. Forse non vivono lo stesso problema nel modo in cui lo vivono gli adulti e gli anziani, ma i giovani sono molto sensibili, sono i primi a rispondere. È vero, noi abbiamo sbagliato la comunicazione nei confronti dei giovani. In Italia abbiamo il limite di fare sempre tutte le cose di fretta, trascurando quei passaggi ineludibili che poi sono quelli che portano all’educazione civica. Noi difettiamo di educazione civica.

Il presidente del Consiglio dice che avremo il vaccino entro dicembre. È una previsione troppo ottimistica?
Mi sembra di non aver mai ascoltato queste parole dal presidente Conte. Ci sono comunque dei criteri fissati da immunologi e virologi, che ne sanno più di me: serve un vaccino sicuro, che abbia passato tutte le fasi di controllo e che possa essere proposto in termini di efficacia da un punto di vista quantitativo. È un po’ come la app Immuni, se non la scarica nessuno non serve. Il vaccino, se rivolto a una fetta di popolazione insufficiente è improponibile, oltreché ingiusto. Quelli che ne sanno più di me mi consigliano di credere all’idea che ci voglia ancora molto tempo per cui questo vaccino potrebbe essere utile il prossimo autunno. Certo, per ragioni elettorali di oltreoceano c’è chi dice di avere il vaccino già in tasca prima del 3 novembre. Ma questa è un’altra storia.

Secondo lei sono utili e si arriverà a fare dei lockdown locali per contenere la diffusione del virus in alcune zone del Paese?
Devono essere dei lockdown mirati, misurati, che non creino ulteriore disagio. Creare dei lockdown mirati in una città come Milano è impossibile perché sono impossibili i controlli. Ormai abbiamo capito che questa è la misura. Io però voglio sperare che l’osservazione della curva epidemica in tutti i suoi parametri – la virulenza, i nuovi casi, la contagiosità, il tasso di letalità – raggiunga il plateau e poi, con l’aiuto di tutti, inizi una fase di discesa. Infine non dobbiamo commettere l’errore, compiuto qualche mese fa, di “sbracare” prima di Natale. Immaginiamo cosa possa voler dire andare in un grande centro commerciale per l’acquisto dei regali.

Senso di responsabilità e collaborazione quindi.
Tutti noi dobbiamo non illuderci e fare la nostra parte. Stiamo vivendo in un mondo diverso. Non è colpa nostra, non è colpa di nessuno, ma ognuno di noi deve fare la sua parte. Vivere in un mondo diverso vuol dire che dovremo aprire gli ipermercati tutta la notte? Che dovremo scaglionare gli accessi ai siti di maggiore afflusso di persone? Tante misure, tante manovre che devono essere studiate adesso per essere applicate tra venti o trenta giorni. Altrimenti il buio andrà oltre l’inverno e ci vedrà arrivare alla primavera senza aver vissuto l’inverno. Con tutti i danni che ne deriveranno.

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