Considera il 30% raggiunto dal NO al referendum costituzionale come il massimo risultato possibile?
Il 30% era imprevedibile. Molti di noi pensavano che la percentuale di NO fosse molto più bassa di quella che è stata. Almeno per chi come me non era favorevole a quella riforma è stata una gradita sorpresa. Detto questo non attribuirei a quel risultato un significato troppo ampio. E’ ancora troppo presto per sapere cosa accadrà. Per ora è troppo presto per dire che quell’ondata è passata.
E’ il segnale che il ceto medio ha voltato le spalle al populismo che negli ultimi anni ha dettato i tempi della politica italiana?
Bisognerebbe che gli altri imparassero la lezione: quell’ondata c’è stata perché le altre forze politiche avevano deluso fortemente ampi settori dell’elettorato. La responsabilità è prevalentemente delle forze politiche che precedentemente occupavano le posizioni di maggioranza e opposizione. Si tratta di capire se arrivano da quelle parti segnali di comprensione di quello che è accaduto. Naturalmente l’elezione di Biden o la sconfitta di Trump va nella direzione da lei indicata: è un segnale più potente del 30% dei NO.
Biden è il vaccino contro il populismo mondiale?
Biden potrebbe essere un presidente debole, in balia delle forze estreme sia del suo partito che dell’opposizione. Diciamo che la sconfitta di Trump è una sconfitta per tutte quelle forze che avevano puntato sulla distruzione del vecchio assetto liberale del mondo occidentale.
Il sentimento anti parlamentare sembra essere ancora forte nel nostro paese. E’ corretto immaginare delle formule che consentano ai cittadini di partecipare più attivamente e con maggiore frequenza alle scelte politiche fondamentali che fino ad oggi sono state riservate ai parlamentari?
In giro per il mondo si sta pensando a soluzioni che consentano a gruppi di cittadini che lo vogliono di partecipare a dibattiti controllati in modo da poter acquisire più competenza e conoscenza sulle varie questioni che interessano i singoli cittadini. Ci sono modi per rendere l’opinione pubblica più partecipe. Il punto chiave però è l’atteggiamento verso l’unica democrazia possibile che è la democrazia parlamentare o indiretta. Anche perché le forme di democrazia diretta, come abbiamo visto, sono ampiamente manipolabili e manipolate. Nel caso italiano i sentimenti anti parlamentari sono antichi, non è una cosa recente. L’anti-parlamentarismo è sempre stato presente nella storia italiana. In alcune fasi è stato anche molto forte. Una cosa antica che fa della democrazia italiana una democrazia fragile e difficile.
Il risultato del referendum è la conferma che la riforma della Costituzione può essere fatta solo a piccoli passi e non con modifiche più strutturali come quelle tentate prima da Berlusconi e poi da Renzi e sempre bocciate dai cittadini?
Certamente è più facile fare piccole riforme salvo che le cosiddette piccole riforme possono avere effetti devastanti: la riforma del Titolo quinto, ad esempio, è stata un disastro ai fini della funzionalità del sistema politico italiano. Ed era la riforma di un pezzo, sia pure rilevantissimo, dei rapporti tra Stato e periferia, tra governo centrale e governi locali. Questa riforma è passata, a differenza della precedente, perché accarezzava i sentimenti anticasta presenti nel Paese. Il referendum ha confermato questo, anche se non nell’ampiezza che si immaginava. Se dovessi dire qual è il vero orientamento non tanto dell’opinione pubblica quanto dei settori che orientano l’opinione pubblica, direi che c’è la volontà di mantenere la classe politica in una posizione di debolezza. Qualunque riforma che va nel senso del rafforzamento del governo – dalla fine del bicameralismo paritetico a una legge elettorale in senso maggioritario capace di rafforzare il governo – è osteggiata perché se la classe politica è debole altri poteri, istituzionali e non, assumono più forza. La debolezza della classe parlamentare è utile a una serie di poteri.
A quali in particolare?
La fine della cosiddetta Repubblica dei partiti, l’indebolimento della classe politica che si ebbe con le inchieste giudiziarie dette di “mani pulite”, ha rafforzato enormemente altri poteri, per esempio quelli amministrativi. Se il potere politico rappresentativo si indebolisce il potere amministrativo si rafforza, perché chi ha il compito di controllarti è troppo debole e non lo può fare. A questo punto una serie di poteri che sono diventati forti non vogliono un rafforzamento del governo, che implica appunto un nuovo rafforzamento del potere politico rappresentativo. Questo credo che sia un elemento centrale. Poi a questo si somma il fatto che se vai a proporre la riduzione dei parlamentari accarezzi automaticamente il sentimento “piove governo ladro” che è sempre stato presente nel Paese.
La strada per riformare la seconda parte della Costituzione potrebbe essere una nuova Assemblea Costituente?
A questo punto non ritengo probabili riforme profonde per almeno una generazione. Io ho fatto parte per molti anni della lega per la legge uninominale, un’idea lanciata nel 1986 da Mario Segni e Marco Pannella. Un gruppo di professori universitari chiamati a proporre in tutto il Paese la riforma della Costituzione e una legge in senso maggioritario. Secondo me il referendum del 2016, quello della cosiddetta riforma Renzi, ha chiuso la questione. Una sconfitta 40 a 60 è fortissima e chiude per un pezzo la prospettiva di riformare in modo serio la Costituzione.
Al taglio dei parlamentari seguiranno le riforme concordate all’interno della maggioranza come condizione perché anche il PD potesse sostenere il SI al referendum?
No. L’unica cosa è sapere se alle prossime elezioni andremo o no con questo sistema elettorale, un sistema misto che mescola elementi di proporzionale a elementi di maggioritario e lo fa nel modo peggiore, perché crea l’illusione di un maggioritario in sede elettorale che poi si trasforma in un proporzionale subito dopo le elezioni. Quanto detto agli elettori prima delle elezioni da M5S, PD e Lega non corrisponde minimamente a quello che è stato fatto dopo. Questo sistema elettorale favorisce la formazioni di coalizioni elettorali che, appena finite le elezioni, consente la rottura delle stesse e favorisce la formazione di governi diversi. L’unica domanda è: questo sistema dura o andremo a votare con un proporzionale più o meno puro? Di altre riforme non vedo la possibilità.
Si pensa alla legge elettorale solo con riferimento alla governabilità ma come risolvere il problema della selezione della classe dirigente?
Ci sono due soli modi per risolvere questo problema: la prima è il ritorno alle preferenze. Però le preferenze creano battaglia tra candidati dello stesso partito. Con le preferenze si crea una lotta per cui il vero avversario non si individua nel partito avverso ma tra gli altri candidati dello stesso partito. E’ comunque un metodo di selezione. Un altro modo per selezionare è il collegio uninominale. Se un partito decide di paracadutare dal centro un candidato in un qualunque luogo contro un candidato forte localmente, quest’ultimo vince. Questo porta a una selezione dei candidati migliori per quel luogo. Questi sono i due modi, non ce ne sono altri.
E le primarie?
Le primarie, se non collegate a un sistema elettorale maggioritario, sono un pasticcio. Il collegio uninominale è stato subito eliminato perché dava fastidio ai leader. Il collegio uninominale fa si che il candidato vincitore acquisti una sua forza, perché ha avuto un rapporto diretto con gli elettori e questo non può essere facilmente accettato dai leader dei partiti. Questo sistema non piace neppure a molti parlamentari perché una cosa è accucciarsi dentro una lista proporzionale sperando di essere eletti altra cosa è fare il candidato del proprio partito in un collegio uninominale, metterci la faccia e sfidare qualcun altro, magari forte e agguerrito. Risultato: l’uninominale è stato eliminato, non abbiamo strumenti di selezione, si parla di tornare alle preferenze dimenticando tra l’altro che intanto sono state approvate leggi sul voto di scambio. Tornare alle preferenze col nuovo quadro normativo non è molto conveniente per i parlamentari che intendono affrontare questa strada.
Lei scrive che “in politica, quando la razionalità si scontra con l’identità, la razionalità esce di solito sconfitta”. Tutte le volte che il M5S, prima contro la Lega e ora contro il PD, ha definito una scelta come “non negoziabile” l’ha spuntata. Perché tanta ostilità per il MES e non per il Recovery Fund?
Se la tua identità si sta liquefacendo devi trovare dei punti su cui differenziarti dai tuoi partner e quindi scegli il primo che capita. Intanto il Recovery Fund è una cosa proiettata nel futuro, in secondo luogo il MES è vincolato alla spesa sanitaria. Non ci puoi fare quello che vuoi, mentre in molti pensano di poter fare quello che vogliono con il Recovery Fund. L’altro elemento è identitario: qualcuno ha deciso che la sua identità si gioca lì. C’è poco da fare. In quel caso vince, come per ora sta vincendo.
Al contrario di quanto è successo in Francia, il governo non sembra avere un piano dettagliato e completo su come impiegare le risorse del Recovery Fund. Rischiamo di arrivare tardi?
Non possiamo dimenticare che non siamo riusciti a rafforzare il governo. Le riforme istituzionali dovevano servire a questo. Il primo ministro è in balia di una serie di forze. La Francia ha presentato un piano per due ragioni: perché ha un potere politico centralizzato nel Presidente della Repubblica e un’alta amministrazione di altissimo livello. Se la politica dà un impulso, l’amministrazione produce un piano di altissimo livello. Semplicemente perché il presidente ha schiacciato un bottone, l’amministrazione è in grado di rispondere. Qui non c’è né l’una né l’altra cosa: né un’amministrazione di alta qualità né una politica centralizzata. Il Presidente del Consiglio non può fare niente se i ministri non sono d’accordo e cioè se le principali forze politiche non sono d’accordo. Lui è una persona che deve mediare.
E torniamo al motivo per cui in Italia non si riescono a fare le riforme.
La sconfitta del bicameralismo paritetico avrebbe rafforzato il governo e proprio per questo una serie di forze hanno voluto la sconfitta di quella riforma. Non si vuole il rafforzamento del governo perché lasciare il primo ministro in balia delle scelte di una pluralità di forze, vittima di una serie di poteri di veto. I presidenti del consiglio in larga misura bluffano sul problema della loro forza. Tranne che in alcuni momenti, come è stato durante la prima fase della pandemia.
Lei parla di pregiudizi diffusi, nella classe politica, contro il mercato, anche da parte di altri centri vitali dello Stato. E’ davvero così ampia l’idea che le imprese più che fonte di ricchezza siano “covi” ove si consumano reati di ogni sorta?
Questo è un orientamento anti-mercato molto diffuso nel Paese. Peraltro diffuso tra persone che usufruiscono del fatto che poi il mercato c’è e produce ricchezza. Se il mercato smettesse di esserci e le imprese smettessero di produrre ricchezza, tante persone che campano attraverso lavori del pubblico impiego o del terziario si ritroverebbero senza lavoro. Però questi sentimenti sono diffusissimi e sono antichi. Non è una cosa di oggi il sentimento anti-mercato, il sospetto verso le imprese è sempre stato presente nella nostra storia esattamente come l’anti-politica. Sono cose antiche che in certe fasi si esasperano.
Considerati questi diffusi pregiudizi anti-mercato e l’ostilità per le imprese, quante probabilità ci sono che le risorse che dovrebbero servire a rimettere in piedi il Paese vengano davvero impiegate per questo scopo?
Qualcuno ha detto che bisogna smetterla di distribuire pesci perché il problema sono le canne da pesca. C’è una parte ampia della classe politica sufficientemente incolta da un punto di vista economico da pensare che il problema sia distribuire fondi nei modi più diversi per alleviare la povertà. Dopodiché hai fatto una bella distribuzione di pesci, hai un debito che va aldilà di ogni possibilità di sostenibilità, e intanto tutti quelli che avevano le canne da pesca chiudono. Le imprese, sia del terziario che dell’industria. A quel punto i pesci non ci saranno più. Questo è il rischio, quando non si è in grado di pensare in termini di crescita e sviluppo.
Perché in Italia non si riesce ad aggregare, a strutturare un partito, un movimento, una proposta politica liberale?
In parte per la debolezza della tradizione liberale italiana, in parte perché la frammentazione è molto alta. Teniamo in conto che con un sistema proporzionale la frammentazione è destinata ad aumentare perché col proporzionale conviene essere il leader di un partitino al 3% piuttosto che uno dei tanti dentro un partito del 30%. In realtà noi abbiamo perso il treno quando non siamo stati capaci di tenere il maggioritario. Se il maggioritario fosse durato ancora, elezione dopo elezione, avremmo tutti quanti, cittadini e politici, imparato a usarlo. A poco a poco si sarebbero asciugate le estreme, le coalizioni avrebbero cercato di convergere al centro e avremmo dato vita a un assetto maggioritario con più possibilità di articolare posizioni che lei ha chiamato liberali ma che possiamo definire più favorevoli allo sviluppo economico e civile del Paese.