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Meno hashtag, più politica

Qualcuno dice che siamo tornati nella Prima Repubblica. Niente di più falso (e lo dico da nostalgico di un tempo in cui i partiti avevano sì mille difetti, ma la politica veniva fatta condividendo un ideale, non condividendo un hashtag). Nella Prima Repubblica, se un partito di maggioranza con gruppi parlamentari autonomi usciva dal governo, il Presidente del consiglio si dimetteva e gli altri partiti della coalizione riunivano subito le loro direzioni per discutere in maniera seria, plurale e argomentata su come ricomporre il quadro politico. Quindi no, non siamo tornati nella Prima Repubblica.

Non condivido i tempi e i modi con cui Italia Viva ha aperto una crisi al buio. Ma molti dei temi di merito che ha posto sono veri e noti da tempo. Che il governo si fosse impantanato, e che insieme a tante cose utili avesse fatto molti errori, veniva detto anche da molti che continuavano a votargli la fiducia per senso di responsabilità verso il Paese (pagando il prezzo personale di venir trattati dalla dirigenza del proprio partito — per fortuna non da molte elettrici e militanti — come un ospite non troppo gradito, fino al punto che l’ufficio stampa di quel partito chiama le trasmissioni televisive che ti invitano per dirgli che ci saranno ritorsioni se lo fanno ancora). Non solo. Alcune di quelle cose le dicevano anche membri del governo nei corridoi dei palazzi. Per carità, fa parte della politica: a volte i panni sporchi è giusto lavarli in casa. Ma c’è un momento in cui il senso di responsabilità diventa ipocrisia, in cui lo spirito di appartenenza diventa collusione. Adesso che il Re è nudo, perché non parlarne? Se non si vuole farlo con le vecchie liturgie di partito come le direzioni nazionali, lo si faccia pure su Facebook, ma con pensieri non hashtag.

L’hashtag alla Casalino #AvantiConConte è uno dei momenti più bassi della parabola del Partito democratico nato con Veltroni, Prodi, Fassino e Rutelli. Il tema politico non è: Conte sì, Conte no. Anche perché questo significherebbe assegnare a Conte una soggettività politica che non ha. L’attuale Presidente del consiglio è un servitore dello Stato che ha tenuto sapientemente insieme due coalizioni eterogenee del tutto diverse tra loro. È un “soft skill” (come si direbbe oggi) che può tornare utile in frangenti difficili. Ma da qui a immaginarlo come un elemento sufficiente per avere una soggettività politica o per guidare una coalizione politica, tanto meno una coalizione progressista, ce ne corre.

Conte ha fatto debiti per quota 100, quando era sbagliato farli, e poi ha fatto debiti per la pandemia, quando era giusto farli. Ha guidato il governo più anti-europeista della storia repubblicana e poi ha partecipato da protagonista a una stagione che può darci un’Europa politica, salvo non usare il Mes per ragioni ideologiche più che di merito. Ha bloccato le navi delle Ong con Salvini, salvo poi cambiare politica (ahimè, solo in parte) e scaricare le colpe di quella precedente solo su Salvini. Adesso, potrebbe anche essere la figura di equilibrio che permette all’attuale maggioranza di ritrovare un programma di legislatura, un metodo di condivisione delle scelte e una compagine governativa che diano risposte alla vita delle persone. Ma sono questi i nodi da sciogliere velocemente. Non il ruolo di Conte o la conta dei voti in Senato.

Il Pd non è un centro di psicologia politica, ma un partito: parliamo meno dei motivi per cui Renzi ha aperto la crisi e parliamo di più dei motivi per cui sostenere un programma e un governo all’altezza della situazione drammatica che stiamo vivendo. E la politica non è mera propaganda: parliamo meno di governabilità fine a sé stessa (o al mantenimento di assetti di potere funzionali a un sistema oligarchico e correntizio) e parliamo di più degli ideali che devono ispirare la nostra azione di governo (o di opposizione). È questa la differenza tra politica e populismo. E noi dovremmo riscoprire l’indipendenza della prima, facendo percepire che siamo un’altra cosa rispetto al secondo. Non è tardi per dimostrare che lo siamo davvero, ma serve un sussulto. Meno hashtag, più politica.

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