In una lettera al Corriere della Sera del 3 marzo scorso, Margherita Vatielli, 16 anni studentessa, ha scritto: “Siamo nel periodo buio di questo ritaglio di umanità, e a me piace cercare di scorgere una luce alla fine del tunnel, nonostante questa mi sembri sempre più lontana”.Questo ritAratto non può che essere credibile. C’è realismo e c’è slancio di speranza. Due elementi che connotano la lettura propria dell’età adolescenziale. I ragazzi vedono e descrivono (periodo buio) quello che stiamo attraversando (un tunnel); riescono, però, a intravedere con il loro lungo sguardo una luce che riapparirà, sia pure lontana, forse troppo lontana.
Perché è buio, questo periodo? Perché questa pandemia (ha) (e) sta spegnendo. La vita di migliaia di persone l’ha già spenta, all’improvviso. Poi ha messo mano a parecchi altri interruttori: lo sguardo, la voce, la vicinanza, i pensieri; l’eredità delle ultime parole; la pietà intesa come esercizio di accompagnamento; l’ultima carezza che faceva tornare bambini i padri, e i figli padri dei loro padri, perché solo se tanto avviene i padri possono rimpicciolirsi per entrare nel seno della morte.
All’inizio del suo imperversare, il virus ci ha divisi, poi ci ha uniti, poi ci ha diversificati, adesso ci sta mettendo in lotta, persino, non più contro ciò che accade, ma contro gli altri, per effetto di quel gran problema che si chiama sopravvivenza. Ci ha divisi perché alcuni pensavano che fosse uno scherzo, niente più di un’influenza stagionale con qualche variazione tematica. Persino qualche storico e qualche altro uomo pensante rimasero scandalizzati dinanzi ai divieti di assembramento, come se la storia, materia del loro trattare, fosse scappata via dai loro libri.
Ci volle la morte, fino a quasi mille persone al giorno, a farci rintanare in casa e da qui esprimere voglia di stringerci “a coorte”, urlare tutto il desiderio di vivere e sopravvivere. E poi autoconvincerci che con la pandemia avremmo dovuto convivere. Così venne fuori la maldestra trasmissione di falsi allarmi: negli ospedali non ci sono malati, il virus è morto, il caldo l’ha ucciso, fuori tutti da casa perché l’economia sta per crollare. Chi ci ha creduto ha finito per ribellarsi, trasgredire, godere della stagione calda per tornare alle abitudini di sempre.
Non è stato così, se non per una breve parentesi di illusione. Lo predicavano già le nostre nonne: ricadere è peggio di cadere.
Alla solidarietà – ahinoi! – vissuta in tutti i modi, è subentrata una lotta che si sta colorando di angoscia: litighiamo sui soldi, litighiamo, soprattutto, sui vaccini da quando abbiamo saputo che il loro arrivo ci avrebbe messo al riparo dall’attacco.
Questa altalena di stati d’animo, ma più ancora di maniera di intendere e rispondere all’insidia, sta spostando la mira della nostra lotta, quasi che non è più il Covid19 il nemico capitale, ma l’anziano che prima di me arriva a vaccinarsi.
Questa non è più una storia di pandemia. E non poteva esserlo. E’ storia di questa nostra umanità in tempo di pandemia. La luce in fondo al tunnel che la nostra amica sedicenne ci diceva di aspettare, non dovrà solo bruciare la causa del nostro soffrire, ovvero il Covid19. La luce dovrà lumeggiare sin negli anfratti più nascosti lo stato di salute della nostra umanità. Dovremo avere il coraggio di farci dire dalla luce che si attende che uomini e donne siamo, quale concerto di umanità siamo capaci di orchestrare, quanta stima e quanto amore vero nutriamo per la vita che è di tutti. E comunque una lezione è sin da ora evidente: usciamo solo insieme. Ad uno ad uno si può solo morire e finanche in triste solitudine.
Dicono che il Covid19 lascia tracce nel fisico. Ci auguriamo che non sia vero né domani né dopo. Ha prodotto danni (e ne sta producendo) nel corpo sociale. Riusciremo a volerli cercare, espellerli, curare e poi prevenirli? Sarà utile e doveroso poiché la vita che ci attende – anche quando alla pandemia ci sarà una fine – richiederà certe virtù civiche e morali di cui non si potrà fare a meno. Urge approntare quest’altro vaccino. Per esso non sono richiesti scienziati, ma uomini e donne pensanti nel vasto laboratorio del mondo.