Siamo giunti a un anno di pandemia da coronavirus che rende persistente uno stato di emergenza generalizzato. Che ne è della filosofia in questo passaggio epocale?
Piuttosto che fornire una chiave ermeneutica essa potrebbe assumere il ruolo di faro per illuminare una condizione di resistenza della comunità con parole unificanti, addirittura piene di speranza. Il compito non è certo inedito per il pensiero.
La filosofia come stile di vita è corrente sin dagli esordi ed ha in Spinoza l’esempio invalicabile; tuttavia il pensiero si trova adesso dinanzi a una voragine lasciata aperta dalla distanza che ha intaccato ogni aspetto del vivere comunitario e, a maggior titolo, del sentire religioso che dovrebbe assicurare una riserva di significati alla comunità.
I teatri sono vuoti, le piazze sono vuote ma, incredibilmente, le chiese sono vuote. L’incontro fisico, anche per la preghiera, è una controindicazione per la salute – l’assenza di corporeità è invece la garanzia di sopravvivenza per la collettività. Il mondo tecnologico, che ci ha preparato a questo stato offrendoci strumenti disincarnati di relazione (non privandoci tuttavia della nostra corporeità eidetica), ci protegge dalla quasi assenza di relazione che la lontananza fisica avrebbe comportato.
La comunità infatti vige come un essere-insieme, qualunque siano le condizioni di questa immanenza partecipativa. A questo dobbiamo volgere il nostro sguardo per produrre significati a venire e non soltanto tragiche agnizioni.
Ritengo pertanto che, oltre le pur rilevanti osservazioni di Agamben sullo stato di eccezione permanente e dei rischi che questo comporta per la vita collettiva e per la democrazia (per fare un esempio illustre di pensiero “negativo” sul tema), sia necessario considerare una riflessione che trattenga la comunità ferita e cerchi di darle forma e speranza.
“Un trop humain virus” (Un virus troppo umano) del filosofo francese Jean-Luc Nancy (Bayard, ottobre 2020) è, a mio avviso, il libro della pandemia poiché in esso l’analisi di ciò che sta avvenendo si coniuga al desiderio di mantenere la comunità, di condurla per mano nella tempesta, finanche nella tragedia; Nancy racconta il pathos della distanza etica per una vicinanza di pensiero, di emozione e di intenti.
Con le parole dell’autore: “Di fatto il virus ci comunizza. Ci mette su un piano egualitario (per dirla in breve) e ci dispone insieme nella necessità di far fronte assieme. Che ciò debba passare per l’isolamento di ciascuno non è che la forma paradossale che ci viene data per riconoscere il nostro essere comunità. Non si può essere unici che assieme. È ciò a renderci più intimamente comunità: il senso condiviso delle nostre unicità”. (J-L Nancy, Communovirus in Un trop humain virus, Bayard, p. 22, traduzione dal francese C. Tinnirello).