La ricostruzione totale del patrimonio artistico e culturale di un centro storico come quello de L’Aquila rappresenta un unicum nella storia del nostro Paese e come tale comporta una serie infinita, quanto evidente, di difficoltà di vario genere. Tuttavia, rispetto a molti altri territori colpiti da sisma, all’Aquila sono numerosi gli interventi di recupero e di messa in sicurezza andati a buon fine nonostante, camminando per le vie del centro storico, si abbia la percezione che ci sia ancora molto da fare.
La volontà di ricostruire L’Aquila seguendo la linea del restauro conservativo è certamente la più difficile da rispettare. In questo senso sospendere lo stato di emergenza nel 2012 non è stata una grande idea. Perché la burocrazia, con i suoi labirinti di competenze e la sua elefantiaca gestione, ha finito per paralizzare la già difficile opera di ripartenza. Costatare che, dopo 12 anni, la Cattedrale di San Massimo in Piazza Duomo abbia un progetto ancora in fase di verifica con una cupola coperta solo parzialmente e opere d’arte lasciate alle intemperie o che la Chiesa di Santa Maria Paganica, dichiarata monumento nazionale nel 1902, sia un cantiere immobile e pericolante è quantomeno molto triste.
La ricostruzione e il restauro non dovrebbero mai essere solo fini a se stessi. Per salvare i nostri borghi, l’identità nazionale e il patrimonio culturale che questi conservano, bisognerebbe intervenire preventivamente sulla falsariga di Kihlgren, l’imprenditore che a partire dal 1994 ha ristrutturato diversi edifici a Santo Stefano di Sessano, in Provincia de L’Aquila, con la tecnica dell’anastilosi, ovvero utilizzando materiali coevi e originali con l’aggiunta di minimi elementi neutri. Considerando che il sisma non ha creato danni alle abitazioni rilevate da Kihlgren mentre ha fatto crollare la torre medicea, restaurata negli anni ’30 con il cemento armato, una riflessione profonda sul tema è d’obbligo.
Ciò che dispiace più di tutto, dopo 12 anni, paradossalmente più della lentezza dei cantieri o dello stato di abbandono di alcune opere, è l’ennesima occasione persa. Perché è vero che non si possono prevedere i terremoti o evitare le calamità naturali ma è altrettanto vero che ciò che sta accadendo a L’Aquila dal 2009 merita di essere preso maggiormente in considerazione dalla comunità scientifica e politica nazionale e internazionale. Perché imparando dagli errori e dai successi di questi anni di cantiere aperto, le prossime emergenze vanno affrontate in maniera diversa. Il nostro Paese è un museo a cielo aperto, se non possiamo combattere la natura abbiamo almeno il dovere di mettere a frutto le esperienze.