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Come gli uccelli in un canto di primavera

Il primo ricordo che ho di Battiato è legato a una zuffa nella splendida cornice di un teatro che non c’è più, per la malintesa idea di tutela e conservazione che certa dirigenza aveva allora dei beni culturali in Sicilia. Si preparava al Castello di Lombardia di Enna un concerto molto promettente, con Battiato stesso, Giusto Pio, La voce del padrone da una parte, millecinquecento spettatori dall’altra.

Erano gli anni in cui gli si rimproverava di tutto. I compositori di professione non gli perdonavano di avere vinto il prestigioso Premio Stockhausen (1979) con L’Egitto prima delle sabbie; i giovani di sinistra lo accusavano di auspicare velatamente il ritorno di Mussolini in L’era del cinghiale bianco (lo stesso anno).

Fatto sta che, nell’indimenticabile cornice di quella sera estiva a 1100 metri d’altezza, un manipolo di detrattori sotto il palco incalzava con ogni possibile offesa il cantautore e la sua band; dal palco Giusto Pio rispondeva facendo il gesto del dito medio sotto la sedia a ogni pausa del suo violino; la situazione sembrava dovesse degenerare da un momento all’altro e infatti degenerò.

Dal microfono centrale Battiato disse al resto del pubblico: “scusate”, e dall’alto del suo metro e ottantacinque si tuffò a volo d’angelo tra quei facinorosi iniziando a darle e prenderle di santa ragione, con il conseguente intervento delle forze dell’ordine.

Che serata indimenticabile! Malgrado fossi un convinto sostenitore della a-himsha gandhiana e avessi abbracciato da poco il vegetarianesimo, uno spirito teutonico mi attraversava tutto e, come Woody Allen alla prima di un Wagner, mi veniva voglia di invadere la Polonia.

Ovviamente scherzavo e scherzo. Era solo per dire che Franco Battiato è stato anche questo e il suo percorso di avvicinamento all’ascesi mistica dev’essere stato più lento e travagliato di quanto s’immagini. Fatto sta che nei miei anni giovanili non sono più riuscito a fare a meno delle sue parole, della sua musica e so per certo che lo stesso è successo a molti della mia generazione.

La sua produzione artistica è stata in tutti i sensi eccezionale. A lui si deve, per esempio, la più colta versione musicale dei nostri miti di fondazione cosmogonica (Genesi, 1987); sua è la messa in scena di uno splendido e magnifico Federico imperatore ne Il cavaliere dell’intelletto (1994).

Suo il merito di avere elevato al rango di paroliere uno tra i filosofi più interessanti ed eretici del secondo Novecento, quel Manlio Sgalambro che ancora riecheggia nelle nostre orecchie con un Invito al viaggio (1999) di baudelairiana memoria; suo il merito di avere recuperato al nostro ascolto compositori e cantautori italiani e francesi tra Sette e Novecento ormai dimenticati e sepolti.

Sua l’impresa editoriale che traduceva e pubblicava il mistico Georges I. Gurdjeff (L’Ottava ed., Milano 1985). Ma suo, soprattutto, il merito di avere risolto in molti di noi il dilemma dell’amore coi suoi significati, portandolo al livello vertiginoso di una Cura (1996) dell’anima.

A pochi giorni dalla morte di una pantera rossa a lui molto cara (per Milva aveva firmato un indimenticabile Alexander Platz, 1982), Franco Battiato se ne va circondato da un amore profondo che fuga ogni residuale incomprensione.

Nell’aria il suo canto risuona, come Gli uccelli (1981), in un canto di primavera.

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