La Camera ha approvato all’unanimità la mozione per la cittadinanza a Patrick Zaki. E’ un messaggio per il governo italiano, cosa dobbiamo aspettarci?
In verità c’è stata l’astensione di FdI, comunque il consenso parlamentare è stato davvero molto ampio. Ora tocca al governo fare la sua parte, ci aspettiamo che l’istruttoria già avviata dal ministero dell’Interno sulla concessione della cittadinanza arrivi a un esito positivo.
Se venisse concessa la cittadinanza italiana a Zaki, quali sarebbero i passi successivi?
La cittadinanza italiana a Zaki è un segno molto forte di pressione sull’Egitto. Credo che serva – nell’attesa che si completi l’istruttoria – continuare a fare tutta la pressione possibile, sia a livello bilaterale, sia a livello europeo, affinché Zaki sia liberato. Ogni giorno di carcere è un giorno in più di una situazione intollerabile. Ci aspettiamo che oltre alle valutazioni sulla cittadinanza il governo aumenti la pressione sull’Egitto, facendosi aiutare anche dall’Europa. I promotori della petizione della cittadinanza a Zaki sono andati a Strasburgo per chiedere sostegno anche dalle Istituzioni europee.
Sarebbe anche cittadino europeo. Gli stati della UE condividono posizioni e azioni sui diritti umani o il recente caso della legge ungherese è la dimostrazione che si va in ordine sparso?
Altri stati hanno casi simili, ma non tutti i governi europei agiscono allo stato modo e credo che questo ci indebolisca molto. Credo anche che i governi europei debbano rendersi conto della vera natura del regime egiziano.
Del caso Regeni ancora non abbiamo chiarezza. Perché?
Non è vero che non c’è chiarezza sul caso Regeni. E’ in corso un processo al Tribunale di Roma, che è stato possibile grazie al lavoro straordinario della procura di Roma e del sostituto procuratore Sergio Colaiocco e al lavoro investigativo svolto dalle tante articolazioni dello Stato. Si è arrivati a questo anche grazie alla pressione diplomatica e soprattutto grazie alla tenacia della famiglia e dell’avvocato Alessandra Ballerini. Non è vero che è un caso insoluto.
Come andrà a finire il processo?
Per quello che abbiamo potuto vedere, come Commissione d’inchiesta, è un’indagine molto solida. Quello che non c’è, è un segno di collaborazione da parte della giustizia egiziana e questo è molto grave. Tutto quello che è stato ottenuto per costruire il quadro indiziario del processo, è stato ottenuto grazie alla professionalità italiana. L’Egitto non ci ha aiutato. In alcuni casi ha organizzato materialmente dei depistaggi. Questo è il problema, noi avremo la verità ma non avremo mai giustizia.
Cosa lega i casi Regeni e Zaki?
Sono due casi per certi versi distinti, nel senso che Giulio non c’è più, era un italiano messo per lungo tempo nel mirino dei servizi egiziani, rapito torturato ed ucciso. Patrick è un ragazzo egiziano che è stato arrestato al suo rientro in patria. Sappiamo dove si trova al contrario di Giulio, di cui non si è saputo dove si trovasse. Ciò che li accomuna è che entrambi i casi svelano la reale natura del regime egiziano, che è un regime brutale, molto violento e che opera nella totale arbitrarietà organizzata da corpi dello Stato.
La democrazia liberale può essere un modello anche per i paesi arabi?
Credo che possano esistere democrazie in contesti diversi da quello occidentale. La Corea del Sud e la Tunisia rappresentano la prova che le democrazie possono attecchire in contesti diversi, come l’Asia e paesi musulmani. Certo, come in tutti i luoghi le istituzioni democratiche hanno bisogno di tempo per poter maturare e radicarsi. Anche in Occidente ci sono democrazie in grande crisi, i cui principi sono messi in discussione. Pensiamo all’Ungheria o alla Polonia.
Cosa può fare l’Occidente?
Lottare per i diritti, per la libertà, per lo stato di diritto, per un processo giusto, per arrivare alla verità di quello che hanno fatto gli apparati egiziani nel caso ad esempio di Giulio Regeni, significa lottare anche per principi democratici universali che devono valere anche in un Paese come l’Egitto. Così, contrapporsi all’arbitrarietà degli arresti, al fatto che le accuse non vengono mai formalizzate in quel Paese, al fatto che gli arresti possono essere rinnovati ogni quarantacinque giorni, a tutti questi elementi di una giustizia persecutoria in cui il cittadino non può difendersi, equivale a lottare per dei principi di carattere universale. Sostenere che la democrazia sia appannaggio esclusivo dell’OccIdente equivale a lasciare miliardi di persone in balia di regimi fortemente brutali e fortemente arbitrari.
L’Italia, storicamente, ha avuto un ruolo strategico nella diplomazia mediterranea. Negli ultimi anni lo abbiamo perso?
Penso che sia giunto il momento di un ripensamento strategico del tipo di interazione che la politica estera italiana vuole avere nel Mediterraneo. Negli anni passati siamo rimasti molto disorientati dalle iniziative del presidente Trump, che ha completamente sposato le cause di alcuni autocrati: non dimentichiamo che chiamava Al Sisi “il mio dittatore preferito”, con un certo compiacimento. Ora è il tempo di ripensare ad una presenza strategica in quel contesto, una presenza che parli di sviluppo, di migliori condizioni di libertà e di migliore distribuzione della ricchezza, perché non dobbiamo dimenticare che questi paesi spesso viaggiano con un sistema corruttivo e di appropriazione delle ricchezze molto accentrato sui detentori del potere. Su tutto questo l’Italia, essendo una potenza regionale importante, può dire la propria.