Gli inchini in Italia portano male. lo ricorderà bene l’ex comandante Schettino. Così il ministro Di Maio, quello che ancora per un po’ rappresenterà l’Italia per il mondo, partì incendiario e fiero per ritrovarsi infine mesto e composto cerimoniere dell’altrui gloria.
Due modi avrebbe avuto in astratto il nostro per salvarsi. Da subito impostare il proprio stile alla sobrietà istituzionale. Avrebbe patito, è vero, l’inimicizia di tanti giacobini suoi sodali, ma avrebbe poi incassato i vantaggi di quella lesta e moderata posizione.
Oppure avrebbe potuto optare indomito per la gaglioffaggine impenitente, sfidando Macron a singolar tenzone o Sergio nostro a una disfida in punto di diritto. Nessuna delle due, ahinoi. Scelse piuttosto, l’imberbe, la consueta e vile via del mezzo: gettare il sasso e tirar via la mano, trita consuetudine dei tanti italiani che (sempre Dio abbia in gloria Ennio Flaiano) corrono ancora oggi in soccorso del vincitore.
Così l’attuale capo della Farnesina (riposino in pace Moro e Fanfani, ma anche Andreotti e De Michelis) puntò le fiches sul giallo gilet e sull’impeachment a Mattarella ma non ebbe poi il coraggio di tenere il punto. Rinculò sui primi e fuggì a gambe levate dal secondo, senza ritegno alcuno.
Un anche mediocre senso della decenza avrebbe a quel punto indotto chiunque, compresa l’immensità delle cazzata, a ritirarsi in un monastero benedettino a scelta. Egli invece, e qui c’è forse da imparare sulla natura umana, non se ne diede per inteso e così conquistò, complice un Paese dimentico degli oltraggi, e sovente del ridicolo, lo scranno (ci perdonino De Gasperi, Nenni e Andreatta, ma anche Alfano Angelino) di Ministro degli Esteri.
Ed è da tale scranno ch’egli oggi si inchina al presidente francese, venuto a Roma per firmare, o karma crudele, il Trattato del Quirinale. Macron e Mattarella in un sol colpo. Ma il nostro non s’adombra e anzi s’inchina. Ostentando coraggio, certamente, ché non chiunque avrebbe avuto la faccia di presentarsi, ma a dire il vero anche un certo candore, giacché per molto meno i francesi furono usi a far seguire, all’inchino, il precipitare veloce di una lama.