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Cavernicoli, curricoli e grotte di Altamira

Nel dipanarsi della catena evoluzionistica dell’uomo, qual è esattamente l’anello cruciale che fa da discrimine fra ominide e umano?

Nel comune immaginario iconografico probabilmente campeggia il diorama dell’australopiteco che scartoccia la sua colonna vertebrale, si solleva dalla quadrupede contemplazione del suolo disegnando una trionfale parabola ascendente.

Homo erectus, homo habilis, homo ergaster… queste sono le etichette tassonomiche riportate da tutti i manuali scolastici per descrivere la gestazione della storia, fino approdare a lui: l’homo sapiens di cui noi illustri eredi porteremmo il pedigree genetico.

Eppure, ci sarà uno spartiacque.

Se dovessi indicare il momento del fatidico “fiat” lo vedrei nelle pitture rupestri di Altamira. Queste grotte della Cantabria recano stilizzate figure di animali, acerbi ghirigori, timbri di mani. Ma nello sbozzato naif dei graffiti c’è il segno di un passaggio. Lo scimmiesco primate, totalmente avviluppato nella sua struggle for existence, fa qualcosa del tutto sottratto alla logica dell’utile. Coprirsi, scaldarsi, nutrirsi, quanti quotidiani assilli nel suo quotidiano ambiente!
Eppure, non gli basta più cacciare il bisonte, lui vuole rappresentarlo.

Proiezione di un desiderio, di una premonizione, di un auspicio… non sapremo mai quali valenze sacrali o rituali affollavano la mente del disegnatore, ma sicuramente la scabra parete rocciosa diventa tela su cui far riverberare un’impellenza espressiva (urgenza inedita nella quotidiana girandola del cacciare-essere cacciato).

Il segno lasciato dal primitivo artista somiglia al gesto infantile di intingere la mano nel colore e tracciare un’impronta; primigenia traccia di esistere e non solo sopravvivere.

Non è dunque l’abilità di fabbricare strumenti, né la sofisticazione cognitiva dei suoi costrutti a identificare il nostro cavernicolo come uomo, ma proprio l’impellenza creativa di un qualcosa avulso alla pragmaticità dell’impiego; non sarebbe nemmeno la capacità del sentimento o l’ingegnosità del problem solving a costituire il tratto identificativo umano.

Esse sono infatti caratteristiche ugualmente presenti in diversa misura anche nell’animale, anzi, gli esperimenti di Köhler mostrano scimmie estremamente intuitive nell’escogitare soluzioni. Ciò che non compare in esse è l’afflato creativo. Tale vocazione si riscontra già nel bambino e nella fisiologica urgenza di estrinsecare fuori le chimere del dentro, non ancora ingabbiate in sovrastrutture sociali.

Nella società contemporanea, troppo spesso vengono bollate come “inutili” tutte le attività del pensiero non direttamente correlate a una concreta applicazione.
“A cosa serve?”
Questa domanda fa cadere la mannaia educativa nell’impostazione didattica di scuole e università, in nome di una strabica e regressiva ‘modernità’ di curricoli.

Le magnifiche sorti e progressive della contemporaneità si conformano ad una visione della cultura intesa come puro processo strumentale a un impiego pratico. Come un manuale dell’Ikea: il libro è funzionale alla realizzazione di qualcosa, non è visto nel suo intrinseco valore plasmante. Gli enti formativi millantano di preparare per il futuro giovani lavatori e non individui pensatori.

Ogni qual volta le discipline legate all’estrinsecazione del pensiero e dell’espressività vengono immolate sull’altare dell’utile, non facciamo altro che deodorare e incravattare l’australopiteco, che continua a dilagare in una società stemma del know how, ma che ormai paradossalmente don’t know why.

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