Chissà perché la difesa del pianeta secondo alcuni dovrebbe passare per il vandalismo e non per le tradizionali prassi di rivendicazione a cui ci avevano abituati i pionieri della salvaguardia ambientale.
Mi riferisco alle recenti azioni guastatrici compiute a Palazzo Bonaparte in Roma e al Museo Barberini di Potsdam a danno di due importanti dipinti del secondo Ottocento (V. Van Gogh, C. Monet). Queste azioni balzano agli occhi come veri e propri pugni nello stomaco.
Ancorché simulate (i due quadri erano sotto vetro), e dunque lasciando agli inquirenti il beneficio del dubbio, c’è comunque in quelle due azioni qualcosa che puzza di anticonformismo altoborghese; qualcosa che dal punto di vista sociologico rischia di nuocere al futuro del pianeta.
Mi spiego meglio. Non mi stupirei se tra vent’anni i protagonisti di tali imprese diventassero esponenti politici di spicco o fiammeggianti esponenti della cultura.
D’altronde ci siamo passati tutti, o quasi: urlare a pugno chiuso o con il braccio teso a vent’anni per ritrovarsi con la spillina del club service di turno a cinquanta.
È la dura legge della middle class, sempre troppo distante dal mondo operaio, proletario, sottoproletario che sia, sempre ammiccante alle élite e alle aristocrazie urbane. Voi direte: ma che ci azzecca questo sproloquio con la nobile arte della protesta plateale?
Ci azzecca eccome.
Io, ad esempio, ricordo che le proteste ambientaliste degli anni ottanta si facevano con le marce, facendo scudo alla fauna selvatica col proprio corpo, con la pratica della non violenza, della resistenza passiva; in ultima istanza con le denunce alle procure della Repubblica chiedendo, spesso ottenendo, di essere riconosciuti Parte civile nei processi contro le ecomafie, contro gli economostri.
In tal modo, è vero che si perdeva miseramente la più parte delle volte, ma è altrettanto vero che ogni tanto si vinceva, ottenendo giustizia al punto che quelle sparute vittorie assurgevano a casi esemplari che muovevano a conseguenti passi legislativi.
Era anche possibile implicare l’arte nelle azioni di protesta. Come quella volta in cui un gruppo di intellettuali, musicisti e artisti denunciarono la preannunciata morte di un lago con un’azione artistica collettiva operata per sottrazioni: una metodica Cubista e Dada che mai avrebbe implicato l’idea di andare a imbrattare ulteriormente l’ecosistema con sostanze di qualsiasi tipo, anche fosse succo di mirtillo rosso o, come in uno dei due casi recenti, con purea di patate.
Voi direte: ma che c’entra? Vuoi mettere lo scalpore che provoca un’azione guastatrice su opere d’arte di valore universale con un anonimo bacino lacustre? E qui sta il danno, mio guastatore anticonformista altoborghese.
Quel lago, quella collina, quel sito archeologico difeso strenuamente, sul campo prima e nelle aule di tribunale dopo, sta al tuo sfregio “simbolico” contro un Van Gogh o un Monet come i questurini di Pier Paolo Pasolini stavano agli studenti manifestanti sulle piazze del ’68.
Vedi, giovane rivoluzionario ambientalista del 2022:
se ti fossi spogliato nudo davanti a quei dipinti;
se avessi fatto l’amore davanti a quei dipinti;
se ti fossi messo in digiuno per giorni e giorni davanti a quei dipinti;
se avessi baciato sulla bocca il sorvegliante museale davanti a quei dipinti;
se avessi posto il tuo corpo nudo accanto a quei dipinti, lasciando che il visitatore potesse infliggerti piacere o dolore con strumenti di delizia o tortura (alla Marina Abramovich, per intenderci), allora e solo allora il tuo gesto avrebbe mosso gli animi e cagionato qualche reazione politica collettiva.
Invece, attentando al valore universale dell’arte, probabilmente hai sortito l’effetto contrario: la temperatura planetaria continuerà a salire e il ventre molle delle multinazionali energetiche, che tutti ci tiene per i gingilli, si laverà la coscienza con una sponsorizzazione museale per meglio tutelare il patrimonio e forse un giorno, durante una possibilissima terza guerra mondiale, si andrà a prendere quei quadri con la forza per soddisfare la sua brama di collezionismo privato.
So che non sono solo. È di questi giorni la notizia che novantadue direttori di musei di tutto il mondo la pensano come me, la quale cosa mi fa ben sperare.
Voi, giovani e focosi imbrattatele, no.