Il piano Merkel-Macron è la proposta più concreta mai avanzanzata per avviare una autentica solidarietà europea. È un duro colpo per i sovranisti. Quanto è positivo questo piano per l’Italia e per l’Europa?
LETTA Nello scontro in corso su questo progetto basta vedere chi si è messo contro e chi lo sta combattendo in modo forsennato: gli olandesi, insieme agli altri paesi cosiddetti frugali. Il termine frugale in italiano non è tanto negativo, perché indica spesso una cosa anche positiva. In Francia si chiamano “les radins” cioè gli avari, i tirchi. In questo caso, parlando di Olanda, Svezia, Danimarca e Austria, è molto più azzeccato il termine francese rispetto a quello italiano. Questo piano inoltre è stato attaccato duramente in Germania dai nazionalisti, da quelli che vogliono che la Germania non si impegni in Europa. A me sembra sufficiente questo per far capirne subito il posizionamento. Sarà dura per la Merkel riuscire a farlo passare in Germania e a non rompere con paesi come l’Austria e l’Olanda. La Germania che rompe con l’Austria e l’Olanda è un po’ come l’Italia che rompe con Grecia, Malta, Spagna e Portogallo, i paesi che fanno parte della costituency normale. La Germania e la Merkel hanno fatto un passo pesante e importante.
Nel merito è importante che si parli non soltanto di prestiti ma anche di interventi a fondo perduto, recependo una idea italiana che non è solo quella di chiedere soldi e aiuti ma che bisogna guardare alla pandemia in modo diverso rispetto ad altre forme di crisi, in conseguenza della quale è giustificato chiedere interventi a fondo perduto. Poi di fatto si mette in funzione un meccanismo di armonizzazione fiscale a livello europeo, una specie di bond che sarà lanciato dalla Commissione. La sostanza è che con questo piano si stanno facendo gli eurobond senza chiamarli eurobond. A mio avviso questo è un passo avanti molto importante. Bisognerà lottare per aumentare la cifra, come ha già detto la Commissione Europea. Per l’Italia questa è una ottima notizia e il fatto che le critiche si siano concentrate anche e soprattutto sul fatto che lo abbiano fatto i francesi e i tedeschi senza di noi dimostra che anche nel nostro paese gli argomenti contro questa proposta sono pian piano venuti meno.
C’è voluto il rischio che l’Europa saltasse per rompere il tabù della messa in comune del debito. Possiamo dire che questo è davvero l’inizio di una nuova Europa?
GIACALONE È la continuazione di una Europa che cambia. L’Europa è molto cambiata già all’indomani del 2012, quando il presidente della Banca Centrale Europea disse che si sarebbe potuto fare qualsiasi cosa pur di salvare l’Euro. Quello fu un cambiamento enorme e anche lì ci fu già una sorta di messa in comune del rischio sul debito. Il fronte degli euroscettici o degli antieuropeisti che si mostra compatto e si fa fotografare coeso con olandesi, austriaci, tedeschi, italiani, francesi non solo non è unito ma è contrapposto al suo interno. Le critiche che vengono dai nazionalisti di una parte sono esattamente opposte a quelle che vengono dai nazionalisti dell’altra parte. Se vincessero loro torneremmo esattamente nella condizione in cui ci trovammo alla vigilia della prima guerra mondiale. Il fatto positivo è che non vinceranno da nessuna parte.
L’asse tra Austria, Olanda, Danimarca e Svezia annuncia per i prossimi giorni una controproposta rispetto al piano Mekel-Macron. Chiederanno che siano previsti soltanto dei mutui e non finanziamenti a fondo perduto. Il fatto che si sia impegnata la Merkel è garanzia che l’accordo fanco-tedesco terrà?
LETTA Secondo me si perché in realtà i quattro sono due, considerato che Svezia e Danimarca sono fuori dall’Euro e questa è una partita che si gioca sostanzialmente dentro l’Euro. È una partita in cui c’è il 90% da una parte e il 10%, rappresentato da Olanda e Austria, dall’altra. Io penso che tatticamente sia stata una mossa straordinaria quella di portare la Germania da questa parte e questo è avvenuto grazie al fatto che l’Italia, la Francia e la Spagna hanno costruito un’alleanza che ha tenuto, mettendo insieme anche paesi non scontati come la Slovenia e l’Irlanda a paesi con i quali c’era più sintonia naturale come Portogallo, Belgio e Lussemburgo. Il tema chiave era e rimane la Germania perché credo che la partita non sia ancora chiusa in Germania. Si tratta di vedere le forze antieuropee come si muoveranno.
Mi sento di fare una provocazione: dobbiamo ringraziare l’autogoal clamoroso della Corte Costituzionale tedesca. L’intervento della Corte tedesca è stato talmente a gamba tesa, talmente fuori luogo, talmente negativo (basta guardare chi si è espresso a favore di quell’intervento: il primo ministro polacco e il primo ministro ungherese. Basta, nessun altro in Europa), è stato talmente sballato – perché diretto contro la Corte di Giustizia europea – che alla fine la Merkel ha dovuto fare un passo per non tenere la Germania fuori da una leadership europea, che così ha ripreso in mano. Credo che quell’autogoal della Corte Costituzionale, almeno in questa fase, ci sia tornato comodo. Temo che sul medio e lungo periodo sia per noi meno favorevole, ma credo che abbia giocato un ruolo.
Impressione diffusa è che l’Italia sia la protagonista che manca in questo momento in Europa.
GIACALONE Temo qualche volta che l’Italia prenda si faccia contagiare da quello che un grande meridionalista napoletano chiamava il “meridionalismo querulo e piagnone”. Anche ad opera di una forza teoricamente nordista c’è una sorta di atteggiamento querulo e piagnone di chi chiede soltanto aiuti e soldi. Non è questo il punto. L’Italia è protagonista delle vicende europee: i nostri imprenditori, i nostri studenti e lavoratori sono parte della storia e della realtà europea. Lo è di meno una politica che si è molto ripiegata su se stessa e che tende sempre a interpretare in maniera fumettistica le cose altrui. Se pensiamo al modo dialettale e provinciale con cui la stampa ha presentato la sentenza della Corte Costituzionale tedesca. In un sistema complesso e importante come quello tedesco tali differenze ci sono sempre state. Quando si è rifatta l’unità della Germania e quindi dell’Europa, sulla sua strada Kohl trovò un ostacolo che era la Bundesbank, che non era favorevole allo scambio Marco contro unità. Quel tipo di differenziazione è rimasto in piedi. L’Italia di allora, l’Italia del negoziato di Maastricht, l’Italia di Guido Carli seppe giocare un ruolo di importante protagonista che i tanti che a questo giro chiedono di essere protagonisti non sono riusciti a interpretare. L’Italia ha una storia lunga e sono convinto che forze nuove si presenteranno a interpretare ruoli nuovi.
Cade in questi giorni il cinquantesimo anniversario dello statuto dei lavoratori. L’idea generale era che la pandemia dovesse creare una crisi simmetrica, destinata a colpire tutti i paesi e tutte le classi sociali allo stesso modo. L’impressione è che la pandemia finisca per creare nuove diseguaglianze. Come cambierà l’organizzazione del lavoro, cosa bisognerà fare per ridurre queste distanze?
LETTA Dopo la citazione di Giacalone del meridionalismo querulo e piagnone io farò la citazione della livella di Totò. All’inizio della crisi si è paragonato il virus a una livella, dando per certi versi una idea positiva del virus, capace di colpire anche i più “fortunati”. In realtà poi si è capito rapidamente che non è così. Se parliamo di Stati, questa crisi è allo stesso tempo simmetrica e asimmetrica: ha colpito tutto il mondo ma in Europa ha colpito più noi del sud rispetto a quelli del nord, e ne stiamo pagando le conseguenze pesantemente. Perché noi eravamo i più indebitati oltretutto.
Nel mondo del lavoro questa crisi ha colpito duramente coloro che erano meno protetti. Il lavoro del posto fisso è sicuramente più protetto rispetto al lavoro autonomo. Questo è un tema di cui tener conto. È una crisi che crea diseguaglianze in tanti aspetti. Ripeto sempre quello che sto imparando sulla didattica a distanza, che è un generatore di diseguaglianze, nel senso che c’è un pezzo di società del mondo dell’istruzione che non ce la fa e ha bisogno del contatto fisico. Con la didattica a distanza il contatto fisico non c’è e non c’è quindi neppure la ricognizione del problema.
Credo che la lotta alle diseguaglianze del dopo crisi sarà uno dei temi principali da affrontare. Ancor di più lo sarà a livello europeo, per un motivo molto semplice: noi e la Spagna usciremo da questa crisi con le ossa rotte; abbiamo bisogno di rilancio. La Germania esce con le ossa meno rotte di noi e allo stesso tempo ha più soldi da investire per il rilancio. Noi usciamo con le ossa più rotte e abbiamo meno soldi nostri da metterci sopra. Ecco perché è fondamentale l’Europa ed ecco perché è fondamentale la scelta che hanno fatto di non dare soldi proporzionalmente a tutti ma di dare più soldi a chi ne ha più bisogno. In questo senso questa scelta è fondamentale perché fa saltare il principio del prima gli italiani, prima i tedeschi, prima i francesi. Mette il principio del prima chi ha bisogno. Questa è l’Unione basata sulla solidarietà. L’idea che il principio debba essere prima gli italiani o prima gli americani o i tedeschi è semplicemente una idea suicida perché se quello è il principio, quando ci si mette intorno a un tavolo chi è più grande di te ti frega. Se il principio è di dare a chi ha più bisogno penso che ci sia una speranza e in questo momento la speranza è positiva per noi.
I liberali hanno partecipato alla formazione dello statuto dei lavoratori?
GIACALONE I liberali inteso come Partito Liberale si perché il lungo lavoro di Brodolini fu varato da una maggioranza di centrosinistra: i liberali erano all’opposizione ma votarono a favore. Segnalo, perché le cose della retorica si confondono nell’ubriacatura della storia, che coloro che sono diventati gli alfieri del principio “lo statuto dei lavoratori non si tocca”, votarono tutti contro lo statuto. Alcune volte si prende la bandiera dalle mani degli altri. Lo statuto dei lavoratori fu la regolazione della dignità del lavoro, che ritorna nella crisi odierna. Le diversità e le distanze, quando si entra in crisi economica, non necessariamente aumentano. Lì conta avere una classe dirigente.
In Italia in molti hanno festeggiato la decisione della Commissione Europea di sospendere il patto di stabilità e le regole sugli aiuti di stato. Sulla seconda cosa, non per ragioni liberali ma di banale convenienza, avrei festeggiato molto di meno perché i governi che possono spendere di più, all’indomani del Covid19 saranno molto più presenti nelle loro economie e quindi nell’economia europea; i paesi che possono spendere di meno necessariamente lo saranno meno. Noi italiani che siamo tra quelli che possono spendere meno dovremo puntare su chi ci può garantire un futuro migliore, che sono le nostre imprese, i nostri esportatori. Negli anni durissimi della crisi, dal 2015 al 2017, prima della pandemia, le nostre esportazioni sono andate meglio di quelle tedesche o francesi. Quella è l’Italia che funziona. I nostri ragazzi che studiano, che lavorano e che si impegnano in giro per l’Europa sono una forza straordinaria. Più del 60% dei ragazzi che escono dall’Italia rimangono dentro casa, restano dentro l’Unione Europea. Quelli sono i nostri punti di forza. Se spostiamo tutto il baricentro sull’intervento dello Stato significa consegnarsi al 2021/22/23, all’indomani cioè della pandemia, in una situazione di maggiore debolezza. Quando fu fatto lo statuto dei lavoratori fu chiaro che bisognava creare una situazione di forza del lavoro italiano. Oggi ho l’impressione che sia sempre più un tentativo disperato di avere sempre più trasferimenti dello Stato, che non porta bene.
Il presidente Letta ha fondato la Scuola di Politiche per offrire una opportunità, gratuita, di formazione per giovani di talento. La stessa cosa fanno la Fondazione Luigi Einaudi in Italia e la Obama Foundation in America, impegnate a formare chi vuole assumere ruoli guida nelle comunità. Appare evidente la necessità di una classe dirigente all’altezza delle sfide che stiamo vivendo. Qual è la differenza tra leadership e personalismo politico?
LETTA La Scuola di Politiche è la più bella esperienza di questi anni. È altra cosa rispetto alla mia attività professionale, quella universitaria, ma è una cosa bellissima, una no profit con la quale sono in contatto con 100 ragazzi italiani l’anno che vincono una borsa di studio e fanno questo percorso. Io penso che il problema della leadership oggi, al tempo della iperconnettività che stiamo vivendo, sia legato al fatto che si confonde la leadership con i like ai post che si fanno. Non è la stessa cosa perché leadership vuol dire indicare una strada che gli altri ancora non stanno vedendo e quindi non mettono il like nel momento in cui la indichi. Questa è leadership. Paradossalmente l’espressione della leadership è una espressione che non si conta con i like. I like si contano dopo che la leadership si è espressa, magari ha vinto, ha completamente dimostrato la sua idea. Questo conta molto. Oggi siamo in un tempo in cui i leader sono dei followers al quadrato: è leader chi è follower dei propri followers. Prendi i tuoi followers, capisci che cosa vogliono sentirsi dire e glielo dici. Sei tu che segui coloro che ti seguono. Un meccanismo di questo genere crea dei mezzi leaders, che infatti cambiano idea ogni minuto e dicono delle cose che non hanno alcuna linearità. Credo che uno dei passaggi chiave sia far passare l’idea della responsabilità della leadership che guarda lontano e che assume decisioni sulla base dei valori e della propria visione, non sulla base dei like. I like arriveranno dopo, se quel che si è detto e pensato è giusto.
GIACALONE È appena arrivato in libreria in Italia un libro di Ian McEwan, lo scarafaggio, che racconta l’effetto della leadership costruita come l’ha raccontata adesso Enrico Letta, cosa succede a un paese che costruisce le sue leadership così. In politica chi è un leader normalmente lo stabiliscono gli altri e chi è uno statista lo stabilisce la storia. Io vedo l’Italia un paese pieno di soggetti che si autodefiniscono leader e si auto eleggono statisti: il tutto ha un che di profondamente patetico ed è influenza di questo specchio digitale che è il far credere che tutti hanno un seguito e tutti hanno delle idee. C’è un problema serissimo che attraversa tutto l’occidente democratico. La prima parte del Novecento, gli scontri ideologici ci avevano lasciato dei contenitori che si chiamavano partiti politici, che avevano mille difetti ma anche mille pregi e una loro linea, una loro coerenza. I partiti politici hanno perso la capacità di creare il nuovo in molte parti del mondo: in Francia il presidente è eletto da un partito che ha fondato lui stesso pochi anni prima. La Germania è l’unico paese in cui i partiti politici mantengono una funzione e un controllo e forse non è un caso se ha la classe dirigente qualitativamente migliore. È determinante avere un posto dove ci si forma, ci si confronta, ci si scontra, possibilmente partendo dalle cose reali e non solamente dalla retorica acchiappa applausi in piazza (una volta) e acchiappa like (oggi): nei partiti di un tempo la distinzione tra chi era un leader politico e chi era uno che strappava gli applausi era chiarissima. Oggi questa distinzione non è evidente, non è chiara ed è un male.
In Italia non se ne parla molto ma sta succedendo qualcosa di molto preoccupante nell’Europa dell’Est. Il Parlamento ungherese ha votato pieni poteri, senza limiti di tempo, a Orban. Cosa sta succedendo in Ungheria? Perché l’Europa deve essere preoccupata?
LETTA Se noi sommiamo quanto sta succedendo in Ungheria e in parte anche in Polonia, riforme che vanno oltre lo stato di diritto – riforma della giustizia, persecuzione nei confronti degli oppositori, il rapporto con il Parlamento – e se sommiamo questo alla libera circolazione dentro l’Unione Europea, creiamo un meccanismo per il quale naturalmente una parte importante della popolazione va via. Io lo vedo con i giovani: se ne vanno. Vanno a cercare fortuna fuori dall’Ungheria e dalla Polonia, lasciano la battaglia politica in mano ad altri. Penso all’Ungheria che è un paese piccolo: se vanno via i trecentomila migliori giovani il paese si sbilancia completamente. La somma tra queste due cose mi preoccupa molto, perché poi il rovesciamento e il ritorno è molto più complicato.
Allo stesso tempo penso che l’Unione Europea debba superare i limiti che si è lei stessa data. Uno dei limiti principali è che si possono far scattare le sanzioni solamente all’unanimità degli altri e siccome i paesi che si fanno sponda sono due, Ungheria e Polonia, non si riesce a far scattare questo meccanismo: tutto il percorso si fermerebbe all’ultimo miglio. Ecco perché io penso che nel dibattito sul bilancio europeo, che è in corso, debbano essere inserite delle norme per le quali nel momento in cui ci sono delle violazioni evidenti dello stato di diritto i soldi destinati a quei paesi debbano essere gestiti direttamente dalla Commissione e non più dai governi. Quel che è stato raccontato da una testimonianza straordinaria del New York Times è che Orban e i suoi amici fanno man bassa dei fondi dell’agricoltura, dei fondi strutturali secondo un meccanismo totalmente verticale che ovviamente va nella direzione di una presa ulteriore di potere. È fondamentale in questo momento tenere alta l’attenzione e la bandiera dello stato di diritto dentro l’Unione Europea.
In questi giorni fa molto discutere la richiesta di FCA di avere un grosso prestito bancario con garanzia da parte dello Stato. Su cosa si basano queste polemiche? Hanno un fondamento?
GIACALONE Si basano sul fatto che la società ha sede fiscale da una parte, fuori dall’Italia, e la sede legale da un’altra parte, sempre fuori dall’Italia. Ma non la società che ha chiesto il finanziamento bensì la holding, la capogruppo. Chi critica dice: perché dovremmo finanziare chi non sta in Italia? La risposta è: intanto il lavoro sta in Italia, gli stabilimenti stanno in Italia, le tasse di quello che si fa in Italia vengono pagate in Italia; sono le tasse sugli utili che vanno da un’altra parte. In realtà non è solo un problema fiscale a spingere molte società a trasferire la sede fuori dai confini nazionali, è anche un problema di diritto societario e di accessibilità al giudice. Su questo punto vorrei sottolineare, a proposito della coerenza del diritto all’interno dell’Unione Europea, che la cancellazione della prescrizione pone l’Italia fuori dal consesso dei paesi civili.
Il tema che dovremmo porci in Italia è come fare a riportare indietro quelli che sono andati via, facendo funzionare la giustizia, modificando il diritto societario, prendo a esempio quello che funziona. Il lavori per il ponte di Genova sono partiti utilizzando il codice di appalti europeo non quello italiano. Queste sono le cose da farsi. Tra l’altro ho trovato molto autolesionista la polemica da parte della politica sul prestito FCA perché se è vero che hanno tutto questo potere di intervento sul dare il finanziamento a tizio anziché a caio, notifico che al momento quel tipo di finanziamento non è arrivato a nessuno. Fino a poco tempo fa sembrava un problema delle banche. Da quello che capisco mi sembra che un ruolo importante negativo lo giochi piuttosto la politica.
C’è comunque un problema di armonizzazione delle politiche fiscali in Europa. Questo è uno dei problemi che l’Europa deve affrontare?
LETTA Si, c’è. Sul tema FCA penso che le parole più chiare le abbia dette il ministro Gualtieri, che è stato molto chiaro nel chiedere – giustamente – impegni a FCA perché tutto ciò che sarà dato venga utilizzato in Italia, in accordo coi sindacati. La questione dell’armonizzazione fiscale è figlia dei veti britannici così come il fatto che non ci sia stata competenza dell’Europa in materia sociale e di sanità. Erano i veti britannici che bloccavano tutto. Ora che la Gran Bretagna è uscita dobbiamo fare dei passi avanti. La proposta franco-tedesca autorizza a pensare che si possa andare verso una armonizzazione fiscale. È evidente che i primi passi debbano essere quelli della eliminazione di eventuali forme di paradisi fiscali dentro l’Unione Europea. Questo è un punto essenziale per rendere tutti più in grado di lavorare in modo competitivo su questi temi.
Negli ultimi giorni è sembrato che il governo potesse cadere per le polemiche legate alla giustizia. Al momento di votare la fiducia al ministro Bonafede si è ricomposta la rottura. Questa tecnica dei penultimatum, utilizzata a turno un po’ da tutti i partiti, è uno dei motivi per cui i cittadini si allontanano dalla politica?
LETTA Vorrei sapere quanti italiani sono stati lì a contare i voti, a guardare quanti ce ne fossero da una parte e dall’altra sulle mozioni di sfiducia, quanti hanno guardato il dibattito trepidando. Secondo me sono stati gli addetti ai lavori del sistema politico e basta. Fa parte di quella bolla che è staccata dalla vita reale. È evidente a tutti che in questo momento il nostro Paese non può fare una crisi di governo. Mentre tutta Europa discute di noi e su come può aiutare l’Italia, l’Italia fa una crisi di governo su Bonafede e Di Matteo? Autolesionismo puro. Cose che neppure io sono in grado di spiegare con precisione, figuriamoci un tedesco, un francese, un olandese che vedono una possibile crisi del governo italiano su una questione come questa. Nessuno se la è filata, come era giusto che fosse, perché alla fine gli italiano sono molto, molto più saggi di quanto si pensi
GIACALONE Io penso che il presidente Letta sarebbe perfettamente in grado di spiegare quello che è successo solo che è meglio che non lo faccia nel senso che farlo è autolesionismo nazionale. Rappresentare la guerra tra giustizialismi come una sorta di spettacolo nazionale è davvero l’ultima delle cose che ci conviene fare. In generale i governi cadono quando si verificano due cose: si è esaurita la propria forza o c’è un’alternativa. La prima è tra le cose che possiamo mettere in archivio la seconda non c’è quindi non è la stagione della crisi.