di Michele Bellini e Monica Nardi
Vuoti a perdere, scarti. Sui 48 corpi senza vita recuperati ieri dalla Marina di Tunisi oggi solo un quotidiano nazionale ha aperto, il “Manifesto”. Altrove si parla di ripartenza, Stati generali, Juve-Milan, qualche polemica scontata sul calcetto. Abbiamo tutti voglia di vita: è chiaro, sano anche.
Ma la morte, nonostante la sua irruzione violenta nell’immaginario comune con la crisi Covid, continua ad essere rimossa o sminuita. Un occhio al bollettino dei decessi, liberi tutti (forse), cessato allarme (per ora).
In molti hanno scritto che dopo decenni, in Europa, la pandemia ha riportato la morte entro una dimensione pubblica: un trauma collettivo in grado di smuovere le coscienze e obbligarle a un ripiegamento sull’essenza stessa del nostro vivere in comunità, sui vincoli di responsabilità che ci legano gli uni agli altri, sulle ragioni più profonde del vivere associato.
È sembrato vero per qualche mese. E dopotutto, specie nel confronto con la gestione della crisi in Usa o in Brasile, l’Europa nel suo complesso ha fatto una scelta inequivocabile e faticosa: la tutela della vita prima di tutto. Prima delle ragioni dell’economia e del lavoro. È stato un trade-off doloroso ma obbligato, che però non deve essere letto solo in chiave etica.
Perché scegliere altrimenti avrebbe significato disperdere, politicamente, quel poco di identità e di coscienza comune che ci rimaneva dopo anni di indifferenza dinanzi alle tragedie che si consumavano nel Mediterraneo. Perché i posti di lavoro si ricreano e le imprese si rilanciano, ma se si abdica a ciò che plasma la propria identità non c’è ripartenza che tenga, non c’è piano di ricostruzione che regga.
Con Covid l’Unione ha reagito richiamandosi ai propri valori non negoziabili, gli stessi, aggiornati, che hanno animato il progetto dei Padri fondatori. Ha dato un orizzonte politico nell’accezione più nobile a una domanda di senso che da anni attendeva un cambiamento, una risposta pragmatica e non fastidiosamente retorica.
Questa risposta, con la svolta positiva impressa con l’azione congiunta di tutte le istituzioni europee, ora non va dispersa nel ritorno al “mondo di prima”. Perché c’è un filo che lega i feretri sui camion incolonnati a Bergamo e le bare allineate a Lampedusa: è la dignità dell’essere umano, da rispettare sempre. È il conto di fenomeni epocali della contemporaneità – le migrazioni, le pandemie, in prospettiva anche gli effetti dei cambiamenti climatici – che puntualmente è arrivato sul tavolo dei governanti europei.
È su questa direttrice che va declinata la riscrittura del paradigma Ue di sviluppo e di benessere. Un modello più sostenibile e giusto, che ponga al centro dell’azione pubblica la persona e i suoi diritti. Decidere diversamente significa smarrire l’identità europea e spianare la strada a chi quei diritti li viola e a quelle morti volta le spalle, per indifferenza o calcolo politico.