Una recente proposta di Eike Schmidt è destinata a fare discutere e forse a modificare nel tempo alcuni assunti teorici del sistema dell’arte. Mi scuseranno gli apologeti della restituzione a tutti i costi dell’opera al suo luogo d’origine, ma credo che la museologia universale mantenga oggi immutato il valore pedagogico, intellettuale e storico delle età classiciste. Avendo svolto per anni il ruolo di conservatore presso una diocesi, ho toccato con mano l’insipienza di certi depositari dell’opera d’arte sacra, malgrado gli sforzi compiuti dalla Conferenza Episcopale Italiana nell’informare e formare il clero e le comunità parrocchiali ad una più approfondita conoscenza dei beni in loro ‘custodia’ e ad una conseguente osservanza delle leggi dello Stato. Così, nel dichiararmi apertamente laico, umanista e risorgimentale, mantengo fermi i principi di educazione e pubblica istruzione del museo, proprio ora che le coscienze patrie vacillano in favore di nebulosi regionalismi. Beninteso, non mi sfugge la complessa questione storica posta dal collezionismo museale per così dire ‘egemonico’, in larga parte accesasi in Europa all’indomani delle conquiste napoleoniche. Soffro chi si scaglia contro la strenua difesa del patrimonio da parte dei territori, quando essa non sia cieca e banalmente campanilistica. Condivido la preoccupazione di chi si batte affinché le opere ‘fragili’ per natura o per stato di conservazione vengano rese inamovibili per legge.
Ora viene la proposta del Direttore degli Uffizi, che addirittura vorrebbe alcune opere in pubbliche collezioni museali ritornare ai rispettivi siti d’origine. Tale inversione, nell’Italia delle multiformi sensibilità e delle disomogenee esperienze di tutela, a mio avviso è rischiosa, e ciò che può funzionare in Toscana, potrebbe non funzionare, chessò, in Calabria. Ma nel farlo egli richiama una metodologia ampiamente teorizzata negli ultimi trent’anni, il Museo diffuso: prassi analitica, progettuale, conservativa e fruitiva del bene culturale, che consente ampie possibilità di soluzioni spesso rispettose di tutte le istanze: di coloro che vorrebbero le opere nei musei, lontane dal loro luogo d’origine, come di coloro che non vorrebbero mai queste ultime se ne muovessero. Tuttavia, proprio perché egli richiama la tipologia del Museo diffuso, la restituzione dei beni culturali ai propri territori dovrebbe essere sempre evitata, incoraggiando al suo posto l’organizzazione del patrimonio in Itinerari tematici integrati.
Integrazione difficile in Italia, tra le opere come tra le genti! Non posso spiegare la formula qui in dettaglio, rimandando il lettore alla sua ampia bibliografia; ma ricordo un progetto imperniato sulla figura e l’opera di Filippo Paladini che molto avrebbe da suggerire agli addetti. Le difficoltà di una sua piena attuazione sono prova della profonda opacità, questa sí diffusa, di molti protagonisti e comprimari del nostro sistema dell’arte. La conseguente esperienza, sempre in Sicilia, del progetto “Le vie dei tesori”, per converso incoraggia a pensare che le teorizzazioni dei primi anni duemila, malgrado tutto non sono cadute nel vuoto. Il richiamo alla diffusività nel discorso di Schmidth è, pertanto, interessante, purché se ne riprendano gli assunti di base, il rigoroso impianto, il saldo legame con diverse linee di finanziamento comunitario, statale, concordatario, privato. Solo allora il Museo diffuso renderà possibile la conciliazione tra i guelfi e i ghibellini della tutela e valorizzazione dei beni culturali italiani.