L’America, nei giorni scorsi, ha dovuto fronteggiare tre crisi: un pericoloso uragano diretto verso la costa sud-orientale degli Stati Uniti; le vittime del Covid-19 hanno ormai raggiunto quota 180.000; una piccola città del Wisconsin è diventata l’ultimo teatro di una crisi nazionale. Ma dentro la «bolla» della Convenzione repubblicana ha trionfato una realtà diversa. Uno dopo l’altro, gli oratori che si sono avvicendati nel corso delle quattro serate hanno tessuto le lodi del presidente americano: l’uomo che ha perseguito una politica per separare i figli dai genitori migranti è diventato un leader dalla profonda umanità; l’uomo che si è vantato di poter prendere, poiché famoso, le donne «by the pussy», alla Convenzione repubblicana è diventato il paladino delle donne; l’uomo che ha costantemente cercato di forzare i limiti della Costituzione, è stato collocato da un seguace al livello dei Founding Fathers mentre un altro, dimenticando le sue invettive nei confronti degli immigrati che provengono da paesi schifosi («shithole countries», per la precisione) ha esaltato Trump in quanto più progressista, sul tema della razza, dei democratici Joe Biden e Kamala Harris.
Il vicepresidente Mike Pence, che ha parlato dal forte militare a Baltimora dove una battaglia con gli inglesi ha ispirato l’inno nazionale americano e che, di passaggio, ha accennato alla tempesta di categoria quattro diretta verso la costa meridionale del paese, si è guardato bene dal menzionare la risposta dell’amministrazione americana alla pandemia (una delle peggiori al mondo) e ha puntato dritto sulla resa dei conti razziale. «Avremo legge e ordine sulle strade americane», ha detto, assicurando di stare dalla parte della polizia. Ma non ha fatto cenno a Jacob Blake, colpito per sette volte dalla polizia a Kenosha in Wisconsin; ed ha ignorato l’uccisione di due persone attribuite ad un teenager. Tuttavia, Pence è sembrato sicuro che la distruzione degli Stati Uniti sia vicina, per colpa della agenda liberale del Partito democratico.
Insomma, i cittadini americani possono anche trovarsi ad affrontare catastrofi che potrebbero costare loro la vita, ma si tratta di inezie; a sentire Pence, quel che conta davvero, la sfida che affronta il paese è «se l’America resta l’America». Lo stesso Trump, nel suo discorso di accettazione, ha messo in guardia sul fatto che, se a novembre dovesse perdere le elezioni, un movimento marxista estremista distruggerebbe l’America e la sua economia. Secondo il presidente americano, per i democratici l’America è «una nazione empia che deve essere punita per i suoi peccati» e spalancherebbero le porte del paese agli anarchici violenti e ai criminali. Curiosamente, Trump (che ha radunato una folla di 2000 persone senza mascherina e senza preoccuparsi del distanziamento) ha accusato il rivale Joe Biden di voler ignorare la scienza e di arrendersi alla pandemia.
Qual è, dunque, la strategia di Trump? In diversi momenti, la Convenzione repubblicana della scorsa settimana ha presentato il presidente Trump in un modo (il paladino delle donne e degli immigrati, il propugnatore della giustizia razziale) che, ovviamente, contrasta con la sua immagine pubblica. Naturalmente, la campagna di Trump non punta a «reinventare» l’immagine del presidente agli occhi degli elettori. E non deve farlo. Ma, a ben guardare, c’è del metodo nei messaggi che la Convention ha offerto la scorsa settimana «attraverso lo specchio». Le cose dette e fatte da Trump sulla razza, sull’immigrazione, riguardo al genere, sull’unità nazionale, ecc., sono, per lui, un problema.
Va da sé che la maggior parte dei progressisti, non potrebbero mai votare per lui, ma quel problema pesa anche su alcuni elettori indecisi e su alcuni repubblicani delusi che, come suggeriscono i sondaggi, non hanno ancora preso una decisione. Questo gruppo comprende persone che hanno votato per Trump nel 2016 e si sono spostate sui democratici nelle elezioni di medio termine del 2018; comprende persone che non erano solite preoccuparsi del razzismo ma che ora hanno cominciato a farlo; e comprende, anche parecchi bianchi e un numero significativo di latinos. Molti di questi elettori mettono nel conto che Trump può essere sgradevole (o «senza filtri», come ha detto sua figlia), ma per questi elettori indecisi anche la pazienza e la sopportazione hanno un limite. «Per votare per Trump nel 2020, vogliono poter credere che sia diverso dalla peggiore versione di se stesso», ha scritto David Leonhardt sul New York Times, e, la settimana scorsa, uno dei principali obiettivi del Partito repubblicano è stato proprio «quello di dare agli elettori il nullaosta per crederlo».
Ecco perché la Convenzione ha fatto ricorso a testimonial che si sono fatti garante verso il pubblico delle sue doti personali e ad una sfilata di donne, neri e latinos. «Posso dirvi che ci tiene davvero», ha detto dal palcoscenico Ja’ Ron Smith, il funzionario nero più alto in grado alla Casa Bianca. Per la stessa ragione, la campagna di Trump sta investendo parecchio denaro in messaggi elettorali in lingua spagnola, specialmente in Arizona e in Florida. «Quel che i repubblicani sanno è che non hanno bisogno di conquistare la maggioranza del nostro elettorato», ha detto Chuck Rocha, uno stratega ispanico autore di «Tio Bernie», un libro sullo sforzo di sensibilizzazione compiuto da Bernie Sanders nei confronti dell’elettorato ispanico.
Trump ha conquistato circa il 30% del voto ispanico nel 2016 e, questa volta, sta cercando di fare un po’ meglio. Il suo obiettivo principale, ha aggiunto Rocha, è rappresentato «dai maschi latinos per i quali contano molto la legge e l’ordine e mantenere le proprie famiglie al sicuro». La strategia complessiva della campagna di Trump suona, insomma, più o meno così: smussare la parte peggiore della sua immagine agli occhi degli elettori indecisi; offrire una giustificazione (fuorviante) della sua condotta in merito al coronavirus; ricordare alla gente la robusta crescita dell’economia prima del virus; definire Joe Biden e Kamala Harris come figure politically correct dell’establishment restie a fronteggiare i facinorosi e i socialisti. «Il tuo voto – ha detto Trump nel discorso che ha chiuso la Convention repubblicana – deciderà se proteggere gli americani rispettosi della legge o dare campo libero agli anarchici violenti, agli agitatori e ai criminali che minacciano i nostri cittadini».
In una campagna elettorale che «vende» paura, il presidente americano non fa che ripetere che la violenza e le proteste scoppiate in diverse città americane sono solo l’antipasto dell’anarchia che attende il paese se Biden dovesse conquistare la Casa Bianca. Ma in un discorso appassionato a Pittisburgh, ieri Biden ha girato l’argomento contro Trump. «Vi sentite davvero più sicuri con Trump?», ha chiesto Biden, ricordando i 180.000 morti americani da Covid-19, il tentativo di Trump di sopprimere l’assicurazione sanitaria offerta dall’Obamacare, la sua incitazione alla violenza e il sostegno ai tagli fiscali che potrebbero prosciugare il fondo pensioni della Social Security. Insomma, «Ora vi sentite più tranquilli e più al sicuro?». L’ex vicepresidente ha anche respinto i tentativi di Trump di raffigurarlo come un amico degli estremisti: «Mi conoscete, conoscete la mia storia familiare. Chiedetevi: Vi sembro un socialista estremista con un debole per i violenti?».
Eppure, Trump sta cercando di convincere i bianchi che vivono nei quartieri periferici che la violenza potrebbe riguardarli se, in novembre, non voteranno un «uomo forte», cioè lui. Un uomo che i democratici giudicano un bugiardo, un razzista, un corrotto e, appunto, un aspirante tiranno. Va da sé che, di questo passo, il voto degli americani potrebbe premiare il candidato meno inquietante.