Il suo nome è stato tra i più citati in questa lunga campagna referendaria perché, con l’Osservatorio per i conti pubblici italiani, ha fornito un paragone molto efficace per quantificare il risparmio ottenuto col taglio dei parlamentari: un caffè ogni anno per italiano. Come si è arrivati a questo conteggio?
Basta vedere qual è il costo per parlamentare e sottrarre il costo che corrisponde alla riduzione del numero dei parlamentari. Bisogna soltanto tenere in conto il fatto che i parlamentari sul loro stipendio pagano le tasse per cui se si riduce la spesa degli stipendi ci sono anche meno entrate. Fa parte delle regole seguite dalla Ragioneria generale dello Stato per verificare quanto si influisce sull’indebitamento netto tagliando alcune spese. Il calcolo che viene fuori è di 57 milioni l’anno. Siccome gli italiani sono circa 60 milioni è meno di un euro all’anno. In realtà un caffè spesso costa più di un euro, per cui il risparmio è inferiore al costo di un caffe all’anno per italiano.
Lei ha parlato di una riforma dannosa, del trionfo dell’apparenza sulla sostanza, delle cose fatte male su quelle fatte bene. Qual è il messaggio che passa?
Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la sostanza del provvedimento. Il secondo attiene all’opportunità di cambiare la Costituzione per una cosa che non è fondamentale. Sulla sostanza, non si capisce bene qual è lo scopo del provvedimento stesso. Se era quello di punire la casta per i suoi privilegi allora si poteva tagliare il costo per parlamentare riducendo gli stipendi, i costi aggiuntivi, i benefici. Ma non diminuire il numero dei parlamentari. Se lo scopo era semplicemente quello di tagliare il numero dei parlamentari , bisogna chiedersi se è stato adottato il modo migliore per farlo.
In Italia ci sono troppi parlamentari?
Se ci confrontiamo con gli altri paesi europei e teniamo conto del fatto che abbiamo due camere che fanno la stessa cosa, dalla nostra analisi viene fuori che abbiamo un po’ troppi parlamentari ma non tanti di più. Se li riducessimo al numero proposto, ne avremmo 230 in meno di quello che serve per far funzionare bene due camere. Non ci ha ordinato il medico di avere due camere, potevamo pure decidere di passare a un sistema monocamerale. Io stesso quando ho fatto il commissario per la revisione della spesa ho proposto di eliminare una camera, sia per ridurre il numero dei parlamentari che per semplificare il sistema di approvazione delle leggi. Se si vuole mantenere il vincolo di avere la Camera e il Senato che fanno più o meno le stesse cose, il numero proposto di parlamentari è un po’ scarso, con una difficoltà maggiore soprattutto per il Senato. Non bisogna sottovalutare poi i problemi legati alla rappresentanza a livello territoriale che di per sé sono abbastanza seri e diventano, ancora una volta, più pesanti per il Senato.
E per quel che riguarda l’opportunità?
Non si cambia la Costituzione e non si spende l’energia politica del Parlamento, con quattro votazioni e adesso un referendum, con tutti i litigi e le complicazioni che ne seguono, per una riforma di questo genere. Se votassimo Si valideremmo questo processo e incoraggeremmo il primo che si sveglia al mattino con un’idea del genere, capace di mettere in piedi una campagna mediatica ben organizzata, a fare un referendum perfettamente inutile. Votare No vuol dire votare No all’approssimazione, all’imprecisione, al fare le cose soltanto per forma e non per sostanza. E credo che questa seconda motivazione, di carattere più generale, sia tanto importante quanto le ragioni di sostanza che abbiamo esposto prima. Stiamo parlando del modo di fare politica in Italia. Vorare No vuol dire votare contro un modo di fare politica sbagliato, approssimativo, basato sugli slogan, basato sulla forma e non sulla sostanza.
Se dovesse passare la riforma, basterebbero 266 deputati e 133 senatori per cambiare ogni parte della Costituzione in modo definitivo, senza che si possa neppure fare ricorso a un referendum, come in questo caso. Questo è un altro pericolo che è stato sottovalutato?
Di sicuro le decisioni saranno nelle mani di un gruppo più ristretto di persone, con il rischio di avere certe aree del Paese non rappresentate. In realtà, invece di togliere i privilegi alla casta stiamo creando una casta ancora più ristretta e quindi ancora più casta.
Sempre dai calcoli che lei ha fatto con l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, se solo facessimo ricorso al MES, in 10 anni avremmo un risparmio 7/9 volte superiore a quello che si ottiene con il taglio dei parlamentari. Perché non abbiamo ancora chiesto di utilizzare il MES?
Si può mettere anche in un altro modo: con il risparmio del MES potremmo mantenere la Camera e il Senato nella formazione attuale per circa novant’anni. Tra 90 anni ci occupiamo di ridurre il numero dei deputati e dei senatori per risparmiare. Perché non prendiamo il MES? Chi è contro sostiene che il MES, in un modo o nell’altro, vuol dire austerità. Che poi è una bufala tecnica e politica, perché se l’Europa volesse metterci in difficoltà in questo momento non avrebbe di certo bisogno di passare per il MES. La sorveglianza rafforzata potrebbe essere decisa già oggi dalla Commissione Europea senza MES. La realtà è che dopo aver dipinto il MES come se fosse il male assoluto non si può riconoscere e ammettere che “Belzebù” è diventato improvvisamente buono.
Si può ancora chiedere?
Si può ancora prendere ma ho qualche dubbio che il M5S cambi idea su questa cosa: dovrebbero riconoscere di essersi sbagliati e in politica è difficile che qualcuno riconosca di essersi sbagliato. I regolamenti richiamati da chi contrasta il MES in realtà sono stati cambiati addirittura dal Parlamento Europeo. Solo i trattati non sono stati modificati e i trattati dicono che il MES fa prestiti con “strict conditionality”, con stretta condizionalità: ma la condizionalità può essere stretta senza che ci siano vincoli in termini di austerità. I prestiti alla Spagna in passato sono stati fatti dal MES senza alcun vincolo in termini di deficit o di debito pubblico, quindi senza austerità. L’unica cosa che si può contestare al MES è che è piccolo: solo 36 miliardi. Presto arriveranno i soldi del Recovery Fund che sono molti di più, ben 209 miliardi. Però perché non prendere questi 36 miliardi secondo me è ingiustificabile.
Ha letto linee guida per la definizione del Piano italiano di ripresa e resilienza per accedere ai fondi previsti dal Recovery Fund? Cosa ne pensa?
Ho trovato insoddisfacente che alcune cose essenziali siano viste come riforme che non saranno finanziate dal Recovery Fund e quindi non saranno sottoposte al meccanismo di sorveglianza europea sull’esecuzione ma andranno avanti in parallelo. Mi riferisco alla riforma della Pubblica Amministrazione, alla semplificazione e alla riforma della giustizia. È anche deludente, secondo me, che parlando di riforma della Pubblica Amministrazione si trascuri un tema che giudico fondamentale, quello della gestione del personale. Le cose nella Pubblica Amministrazione le fanno le persone e se non si cambia il modo di gestire le persone, premiando chi è bravo e non premiando chi non è bravo, è ben difficile che la PA possa funzionare avendo come obiettivo di fornire dei servizi migliori al pubblico.
Lei è stato commissario per la revisione della spesa. Sembra essere una battaglia impossibile da portare a termine. Da quei tagli verrebbe il vero risparmio per il Paese, altro che riduzione dei parlamentari. Quali sono state le difficoltà che ha trovato?
In realtà la spesa pubblica negli ultimi anni, dopo il 2010, non è certo esplosa in Italia. C’è stato un contenimento della spesa ma i tagli sono stati fatti in modo lineare, tagliando in maniera uguale sia le amministrazioni efficienti che quelle non efficienti. Poi ci sono i grandi temi: la spesa per le pensioni o quella per la difesa. Lì la difficoltà è puramente politica perché si vanno a toccare, anche in modo piccolo, una marea di persone. Infine c’è il tema delle priorità. Non si è data priorità all’aumento della spesa in alcuni settori essenziali, la pubblica istruzione prima di tutto e poi la sanità. Si parla invece di un ulteriore aumento della spesa per pensioni.