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Focu friddu

di Mauro Mirci *

Ho vissuto altre emergenze, ma sono state emergenze diverse. Spesso sono state emergenze di fuoco. Vampe che volano alte nel cielo. Alberi che divampano in pochi istanti, e il crepitio assordante del legno che si disintegra e trasforma in cenere e fumo. Lo vedi, il nemico. O lo percepisci, comunque. C’è il fumo, ci sono le fiamme, c’è la fatica, c’è la disidratazione. E i sensi di colpa. Oppure c’è il fango. Il cielo si oscura di colpo e viene giù il diluvio.

Ecco, di eventi come questi non riesci a dimenticarti. Anche in questo caso ti senti in colpa. Vorresti metterti a vociare anche tu come i miracolati, urlare contro la malasorte, contro il governo, contro il sindaco, contro chi dovrebbe fare e non fa. Regredire allo stato bestiale e grugnire e bestemmiare. Tutto, ma non pensare. Ma hai la casacchina blu col tricolore. Ti tocca fare la faccia di chi ne ha viste ben altre, di quello che sa cosa fare e come farlo. Vicinanza ma calma e serenità. Empatia e distacco. Un ossimoro. La costante comune è il rumore. Ogni volta decibel a livello altissimo. Suoni del fuoco, delle sirene, dei soccorritori. Richiami, bestemmie, ordini, gracchiare delle radio.

Ma oggi è un’emergenza del silenzio. Ogni tanto il passaggio di un’automobile. Oppure la mia stessa voce, distorta dagli altoparlanti, che raccomanda di non uscire di casa, di stare calmi, di non fare incetta di roba nei supermercati.

“Focu friddu”, fuoco freddo, diceva mia madre quando voleva significare un evento terribile ma sotterraneo.

Come quello attuale. Il nemico questa volta è invisibile, silenzioso, volatile. Viaggia con il minimo soffio d’aria, si nasconde sugli oggetti di sempre. Si annida sulla tua stessa pelle. Non sono più il fumo, il fuoco o una tonnellata di fango che possono ucciderti.

Sono i gesti usuali, il saluto a un amico, il vicino di scrivania che parla senza mascherina, la signora con la borsa della spesa in coda assieme a te al supermercato. Per salvarsi non è sufficiente allontanarsi dalla zona di rischio. Le mappe, le aree rosse, sono inutili.

Un virus, una cosina grande, al massimo, 300 nanometri. Un nanometro equivale a un miliardesimo di metro. Per capirci, se dividiamo un metro per mille otterremo un millimetro. Ecco, adesso prendiamo quel millimetro e dividiamolo per mille. Ancora troppo grande. Prendiamo questa millesima parte di un millimetro e dividiamola per mille. Quello è un nanometro. Prendetene 300 e avrete l’idea delle dimensioni di un virus. Invisibile anche al microscopio. Occorre quello elettronico per vederlo, e solo con particolari accorgimenti.

Quindi creiamo la nostra personale difesa. Ce ne stiamo ognuno all’interno di un’ideale sfera di almeno un metro di raggio. Timorosi del respiro altrui, o dell’altrui superficialità. Se sei costretto fuori di casa cerchi di non pensare al rischio. Metti la tua mascherina di panno, calzi i guanti, e lavori. Ignorare il rischio è irragionevole.

Eviti contatti stretti, apri finestre, tieni a distanza gli altri, cospargi mani e oggetti con quantità esagerate di disinfettante. Lo sai che qualcosa ti sfuggirà sempre. La tastiera del computer. Chi l’ha utilizzata oltre me? E il volante dell’auto di servizio? E il sedile? Gli abiti? Rischio di portarmi il virus in camera da letto quando mi spoglio per andare a dormire?

Poi arriva momento in cui ti rendi conto che puoi affidarti solo a gesti automatici, a rituali d’igiene ormai interiorizzati. Alla buona sorte. Semplicemente, è meglio non starci a pensare, altrimenti vince la paura.

La paura è un ottimo amico: ti tiene sempre sul chi vive, ti suggerisce attenzione e prudenza. Purché non superi la soglia dell’utilità. Allora paralizza ogni pensiero e ogni azione. Lo hai fatto diventare il tuo esercizio quotidiano: gestire la paura e assumerne la dose necessaria, non di più, portare avanti il tuo lavoro sforzandoti di fingere massima serenità, giusta misura, adeguata applicazione, alta attenzione, necessario ottimismo. Immerso nel silenzio della città intorno a te.

Focu friddu. Uffici silenziosi, piazze deserte, passanti solitari dai volti nascosti. Ogni tanto rabbia. È la paura il segno distintivo di questi giorni. Continua e sotterranea. Onnipresente. A dispetto dei flash mob, degli inni nazionali dei richiami alla responsabilità e alla razionalità. Siamo animali sociali evoluti, ma pur sempre animali. La paura fa parte del nostro DNA, la razionalità è solo un’appendice aggiunta dopo. La struttura, però, è sempre la stessa: temiamo il fuoco, l’ignoto, l’imprevedibile, l’incomprensibile, l’invisibile.

  • Vive e lavora a Piazza Armerina. Sogna di fare lo scrittore, ma essendo vecchio e serioso gli affidano solo la gestione di disastri e cataclismi. Attualmente litiga col coronavirus. Vi farà sapere come finisce.
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