L’ampio dibattito di queste settimane sulla didattica a distanza ha fatto breccia in tutti gli strati dell’istruzione. Come se la tecnologia informatica non avesse mai scalfito le nostre abitudini, ci siamo trovati a fare per la prima volta i conti con un tangibile processo di smaterializzazione intellettuale. A nulla varrà dire che siamo in enorme ritardo rispetto ai sistemi educativi delle civiltà avanzate. Pachidermici, entriamo nel merito di una questione divenuta ineludibile per contingenza, quand’essa avrebbe dovuto diventare ineludibile per evoluzione.
Taluni prefigurano la fine del docente in carne ed ossa, spostando il dibattito verso il rischio occupazionale e generando ulteriore preoccupazione ed incertezza; avventurieri, immaginano che la tragedia ci dia agio di continuare la carriera lavorando da casa fino alla pensione. Nel mentre, le esigenze del giovani vengono messe in subordine ora come ai tempi della Pantera, ma senza la rabbia ferina di allora.
Il fatto è che nei prossimi mesi della didattica a distanza non si potrà fare a meno se non mettendo a rischio l’intero sistema; che una pronta risposta alla pandemia per il tramite del dialogo nell’asse sociale istituto-docente-allievo-famiglia, sta garantendo continuità di rapporto. Pur sapendo benissimo che l’insegnamento è arte dell’incontro, so altrettanto bene che una frattura netta, anche solo di un anno, in quel fragile asse, equivarrebbe ad una futura ricostruzione come dopo una guerra e le guerre, si sa, mietono le maggiori vittime tra i più giovani
L’esperienza di formatore nel tempo del Covid19 l’affronto così: con la curiosità di chi ama la vita e le sue inattese novità. Insegnare Storia dell’arte dalla quarta parete di un computer non ha lo stesso sapore dell’aula, ma costringe a un esercizio virtuoso. La voce scorre velocemente, non c’è tempo per rimestare pensieri, devi trovare, trovare, trovare. L’occhio è in continua fibrillazione, la sintassi è completamente nuova. I ragazzi sembrano apprezzare; il livello di interazione non è maggiore che in aula, ma differente. Le domande si fanno più argute, le risposte ponderate. Finita la lezione organizzo le idee senza pigrizia, seleziono le fonti migliori, elaboro nuove strategie. Insomma, vivo. Una vitalità che non sostituisce la bellezza del confronto diretto ma vi si affianca con dignità, squarciando il velatino tra me e loro, così giovani, così diversi.
Penso sempre alla città cinese di Shenzhen, una megalopoli nuova che sarebbe piaciuta molto al futurista Sant’Elia, in cui i giovani abitanti vengono assunti a sedici anni e tutti parlano la lingua della post modernità. Ci penso e misuro la nostra distanza. Non mi date del provinciale, la mia è una deriva esotica.