Silvia Romano è tornata a casa dopo quasi due anni di apnea in cui s’è temuto per la sua vita. Provata, pallida, gli occhi scavati ma raggiante di gioia. Si è tolta la mascherina per uno dei suoi sorrisi migliori. Poi il lungo, commovente abbraccio con la famiglia. Un bel giorno in questo lungo periodo di sofferenza e sacrificio. Un segno di speranza celebrato nel giorno in cui si rende omaggio alla mamma. Certe esternazioni schiumanti di rabbia lasciano però un retrogusto amaro. Il fiele lanciato da alcuni su questa ragazza ci disillude sul fatto che i mesi di clausura ci abbiano insegnato qualcosa sul senso di solidarietà.
Curioso: dopo aver tante volte ripetuto il mantra di “prima gli italiani”, il ritorno a casa di questa italiana è stato il pretesto per dare stura al livore covato da pessime coscienze. Archiviati terroni, migranti, e runner al tempo del covid, i cattivisti, di professione o per diletto, hanno fatto di Silvia un nuovo bersaglio. Era naturale che ciò avvenisse perché lei rappresenta tutto ciò che odiano: l’amore per il prossimo, anche se forse troppo ingenuo, e per di più povero, nero, africano. Silvia non è scesa dalla scaletta brandendo un crocifisso, dichiarandosi pentita, chiedendo scusa agli italiani per i soldi spesi per la sua liberazione. Indossava abiti tradizionali somali, aveva il capo velato. Silvia è adesso una donna (imperdonabile aggravante) libera, e quel sorriso è uno schiaffo a chi prova disperatamente a giustificare la propria miseria.