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Indipendenti, di Marco Bentivogli: una rivoluzione di senso

Indipendenti – Guida allo smart working è il bel libro che Marco Bentivogli ha recentemente dato alle stampe per Rubbettino. Il volume, che è probabilmente stato scritto durante le fasi più dure della pandemia da Covid-19, e certamente da questa ha preso spunto, è però chiaramente stato pensato prima, lungamente e indipendentemente da essa. Le vicende sanitarie che ci sono occorse hanno piuttosto mostrato che l’autore aveva visto giusto nel ragionare sul peso strategico che lo smart working – che è cosa diversa dal telelavoro, come si scopre scorrendo le pagine – avrà nel mondo a venire. Quello proposto da Bentivogli è un modello di lavoro “intelligente” perché non si limita a trasferire in altro luogo le medesime mansioni che il dipendente svolgerebbe all’interno dell’azienda: quello è il telelavoro propriamente detto, che mantiene in capo al datore di lavoro i consueti penetranti poteri di controllo. Lo smart working è invece una modalità organizzativa flessibile che riconosce autonomia al lavoratore nella scelta di luoghi, tempi e strumenti per il conseguimento del risultato.

Si tratta di un coraggioso atto di sfida alle modalità con cui normalmente si affronta il problema dell’agency, cioè: come faccio a sapere che il mio dipendente curi veramente i miei interessi e non lesini l’impegno? Risposta consueta: inasprisco il controllo, e per farlo devo tenere il lavoratore quanto più prossimo a me. Si tratta di quello che comunemente viene definito “micromanagement”, e che più cospira nell’inquinare il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore. Ecco, lo smart working (il lavoro “agile” nella terminologia adottata dalla recente legge 81 del 2017) milita esattamente in direzione opposta: devo provare ad allineare l’interesse del lavoratore a quello dell’impresa, sul presupposto che il vantaggio di questa si trasformi nel benessere di quello.

Il filo conduttore del libro sta nel fatto che questa nuova modalità di lavoro non è una tipologia a sé, da aggiungere alle altre già in vigore, ma è la forma di una nuova mentalità, indispensabile per affrontare le tre grandi trasformazioni di fronte a cui ci troviamo: demografica, ambientale e digitale.

L’invecchiamento della popolazione è un trend che non accenna a modificarsi, e tra le conseguenze alle viste c’è una forte contrazione del Prodotto interno lordo. Oltre a compensazioni che possono venire dalla gestione del fenomeno immigratorio e da politiche inclusive, una possibile via di contrasto a tale esito consiste nel favorire le condizioni per rimandare, su base volontaria, l’uscita dal mercato del lavoro per raggiunti limiti d’età. Ciò può avvenire però soltanto a condizione di poter contare su forme alternative di prestazione dell’attività lavorativa, che si mostrino più flessibili quanto a tempi e luoghi: lo smart working, appunto. D’altro canto, l’invecchiamento della popolazione mostra una forte vulnerabilità di quei segmenti di popolazione su cui ricade la cura di bambini e anziani. Nuovamente, modalità di lavoro che puntino sul risultato da conseguire senza imporre le modalità con cui perseguirlo, sono in grado di liberare moltissime energie – femminili, soprattutto – che resterebbero altrimenti imbrigliate tra le mura domestiche.

La trasformazione digitale, per parte sua, suona come una condanna in un Paese che, ricorda Bentivogli, vede prive dell’uso internet più di sei milioni di famiglie. Tuttavia non c’è alternativa all’alfabetizzazione informatica per chi vorrà trovare lavoro, e magari cambiarlo, nel terzo decennio degli anni duemila.

La trasformazione ambientale, infine. Quella parte di inquinamento che è legata agli spostamenti quotidiani necessari per recarsi al lavoro e ritornarne svanirebbe nel nulla. Se le previsioni legate all’implementazione dello smart working nel mondo saranno rispettate, i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera diminuiranno di 214 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030.

A proposito della qualità del rapporto tra imprenditore e lavoratore, Bentivogli prospetta una logica win-win secondo cui lo smart working conviene a tutti. Conviene ai datori di lavoro perché permette loro anzitutto di risparmiare, e nettamente, sui costi legati ai luoghi di lavoro. In secondo luogo, grazie all’allineamento delle funzioni di utilità loro con quelle dei lavoratori lucrerebbero un risparmio sui costi legati al controllo gerarchico delle attività del lavoratore, liberando così energie da potere reinvestire nell’attività d’impresa. Soprattutto, migliorando il benessere dei lavoratori l’imprenditore otterrebbe un incremento di efficienza e quindi di produttività: il benessere del lavoratore e la sua produttività, si legge a più riprese nel volume, non sono antagonisti se non in letture efficientistiche sbagliate, e comunque sorpassate, dei fenomeni legati al mondo del lavoro. I lavoratori, dal canto loro, godrebbero di un risparmio di tempo e di risorse economiche potendo liberarsi della necessità di recarsi quotidianamente sul luogo di lavoro e, cosa ben più importante, potrebbero ridefinire, migliorandolo, il bilanciamento delle loro esigenze di vita con quelle di lavoro trasformando quest’ultimo, per usare le parole di Bentivogli, da “un luogo in cui ci si reca” in “una cosa che si fa”. Ciò a condizione, mette in guardia l’autore, di non scambiare lo smart working per una misura di welfare, ma di riconoscergli il valore di miglioramento organizzativo. Non si tratta di accordare al lavoratore un presunto diritto a proseguire da casa il lavoro, cioè, ma di ridisegnare l’accordo nell’interesse reciproco.

A fronte dei tanti benefici enunciati, però, perché l’Italia è ultima in Europa per utilizzo dello smart working dietro a Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia ed Ungheria? Parte sindacale, parte datoriale e governo condividono, nella ricostruzione di Bentivogli, questa responsabilità. Il sindacato, anzitutto, è chiamato ad essere qualcosa in più che un semplice mediatore del conflitto del lavoro per tornare ad essere promotore delle condizioni di progresso economico e sociale. Per riuscirci dovrà riconoscere gli errori commessi, abbandonare quei timori che rischiano di condurlo su posizioni conservatrici e allinearsi, senza preconcetti ideologici, alle nuove dinamiche socio-economiche per continuare nella propria missione di essere dalla parte dei lavoratori. D’altro canto, la parte datoriale non può profittare unilateralmente delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie ma deve accettare di condividere con il lavoratore finalità e mezzi della propria impresa. Il che implica rinunciare ad un controllo gerarchico sul lavoro, sui suoi tempi e i suoi spazi, per limitarsi ad un controllo sul risultato del lavoro. Il governo, infine, che è chiamato a promuovere le nuove modalità di prestazione del lavoro. Ciò significa non tanto legiferare opportunamente, ma anzitutto incentivare fiscalmente il lavoro in modalità smart, anche per gli indubbi vantaggi sociali già indicati, ed approntare infrastrutture, soprattutto digitali, da cui dipende la concreta praticabilità di questa modalità di lavoro.

Bentivogli non nasconde le insidie della rivoluzione che pure cerca di promuovere: lo smart working non è privo di rischi, tre su tutti. Quello di stabilire una continuità fra vita personale e professionale dove i reciproci confini sfumano nell’indistinto; quello, connesso, di conversione delle mura domestiche in luogo di lavoro anziché di riposo; quello, infine, di drastica riduzione della socialità, non essendo più il luogo di lavoro occasione quotidiana di relazione. Numerosi però anche i rimedi che il libro offre: da una workplace strategy complessiva, che non limiti la scelta del luogo all’alternativa binaria casa-azienda, all’alternanza di periodi di lavoro da remoto ad altri in azienda per beneficiare dei vantaggi dello smart working senza cancellare i benefici insiti nella frequentazione del posto di lavoro. Soprattutto la valorizzazione di strumenti già messi a disposizione dal legislatore. Tra questi il diritto alla disconnessione e ad una sicurezza del lavoratore che comprende anche la riservatezza dei propri dati.

Il volume, dotato di una preziosa appendice che dà conto dell’evoluzione normativa, delle best practice nel panorama nazionale e delle linee guida Fim Cisl sullo smart working, contiene anche un’utile supporto alla conversione “smart” di imprese esistenti e alle condizioni per avviare da zero un’impresa smart. Offre inoltre un inquadramento più generale delle tematiche esposte a proposito del lavoro agile, con riferimento ad una intera società che va trasformandosi insieme ai propri territori. L’una e gli altri, in una con le opportunità digitali che avanzano, possono oggi cogliere l’occasione di ridefinirsi in maniera agile e intelligente per assicurare ciò cui lo smart working appare preordinato: restituire centralità alla persona. Quanto si sarà in grado di farlo, specie dalle nostre parti, dipenderà come sempre dalla buona volontà degli attori in gioco. Starà a loro cogliere le opportunità che Bentivogli racconta e per cui auspica il superamento del nostro antico, attuale ed ”eterno timore della libertà”.

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