Andavo a Bose. In un tempo che seppure vicino appare remoto. Quindi, in un passato remoto, in un c’era una volta, andavo a Bose così come prendevo l’aereo per andare all’estero o a Milano. Così come viaggiavo o progettavo di viaggiare per l’Italia. Ma se, forse arbitrariamente o ingenuamente o fiduciosamente, posso coniugare un futuro: io viaggerò, tu viaggerai, noi viaggeremo, temo di avere cancellato la prima persona singolare, e forse anche plurale, del futuro tornare a Bose.
Chi andava a Bose come me, aveva come guida gli scritti di Enzo Bianchi, le letture della colta editrice Qiqajon, i commenti appassionati, le conversazioni con don Pietro. Chi andava come me si trovava in una prova della vita, in una esigenza di verità, nel bisogno di quiete. Chi come me andava a Bose cercava un luogo dell’anima. E la cosa imprevedibile è che là trovava tutto questo.
Non ci credo anche se ci tento, mi ero detta davanti alla campanella d’ingresso: “Suonate, entrate, qualcuno vi accoglie”, ma fatto il primo passo gli altri sono stati audacemente semplici, leggeri, pazienti.
Quanto si cammina a Bose. Dall’Ospitalità alla Foresteria, dalla Foresteria alla Chiesa, dalla Chiesa alla Sala riunioni, dalla Sala ad Emmaus, da Emmaus ai Convivi. E poi le passeggiate per la collina e nei borghi vicini.
Quanto si sosta a Bose. Sotto la quercia, sulle panche di fronte ai lunghi tavoli, tra i libri e le riviste di Emmaus, davanti all’antica chiesa di San Secondo, fra il salmodiare ecumenico accompagnato dall’organo, nelle meditazioni comunitarie.
Quanto si sta soli a Bose. Nell’intimità della propria stanza, nelle ore morte in chiesa, nel silenzio annunciato dalla campana nel farsi sera, in vecchi e nuovi percorsi, tra compagni di viaggio perduti, compagni con i quali procediamo, domande abbandonate perché senza risposte o dalle risposte sbagliate o risolte. Domande nuove che il tempo breve incalza.
Quanto si è in compagnia a Bose. Ogni volta che ne senti la necessità, per incrociare uno sguardo o scambiare soltanto due chiacchiere, o incontrare l’altro. A volte addirittura Dio.
E poi, a un tratto, improvvisamente per noi che non siamo teologi, che non siamo chierici, che non siamo interlocutori privilegiati della Comunità, che non siamo il Delegato Vaticano e, nemmeno a osarlo con un pensiero, Papa Francesco. A noi che siamo, come ci riconoscono i monaci e come noi sinceramente ci sentiamo, semplicemente “amici di Bose”, cade dalle mani il vaso prezioso nel quale avevamo riposto la Speranza che tra le virtù umane è la più grande.
Siamo disorientati, tentiamo di rifare il cammino, al contrario, e di nuovo leggiamo, cerchiamo commenti, spiegazioni. Verità. Ma solo frammenti. Non riusciamo, non possiamo, neanche vogliamo, ad essere sinceri, farci un’opinione. Prendere partito tanto meno. Siamo soltanto addolorati.
Il vaso si è irrimediabilmente rotto, tocca a noi e soprattutto a loro scegliere se buttare via i cocci o andare a lezione dai Giapponesi. Raccoglierli pertanto quei cocci e attaccarli l’uno all’altro con la tecnica del kintsugi. Esaltare le fratture, le rotture. Impregnare le dita di oro e amorevolmente, quasi con carezze, accostare, riparare, riunire. Riconciliare. Passare e ripassare le mani sulle risplendenti cicatrici sapendo che non scompariranno, ma che segneranno una nuova storia, preziosa come le rughe sul volto di un vecchio.
Per ricordarci che Bose come tutto ciò che è umano è imperfetto. Che la perfezione è solo attributo di Dio.