Giorno dopo giorno, in Myanmar aumentano la violenza ed il caos. Secondo il gruppo di pressione Assistance Association for Political Prisoners, nel corso delle numerosissime dimostrazioni successive al colpo di stato del primo febbraio scorso che ha riportato al potere i militari, le forze di sicurezza hanno ucciso centinaia di manifestanti. Ma, come sostiene Derek J. Mitchell su Foreign Affairs, i governi del mondo non si rendono forse conto di quanto le cose potrebbero aggravarsi, se si dovesse sviluppare un conflitto destabilizzante per l’intera regione con l’esodo conseguente di rifugiati.
Dopo il colpo di stato militare, il Myanmar potrebbe «non diventare un altro stato dispotico, come la Cambogia sotto Hun Sen o la Tailandia dopo il golpe del 2014, ma un’altra Siria», scrive Mitchell. «Un luogo di incontenibile devastazione e di inconciliabile divisione tra una cricca dominante e l’ampia massa dei cittadini. La reciproca estraneità aumenta di giorno in giorno.
I generali sono isolati, divorati da una miscela di avidità, ignoranza, paura e ambizione, e sono probabilmente sorpresi dalla forte resistenza che hanno suscitato. Come Bashar al-Assad e i suoi alleati in Siria, i leader del Tatmadaw – come è chiamato l’esercito del Myanmar – forse si rendono conto che ci sono dentro fino al collo e non possono mostrarsi insicuri sulla rotta da seguire, anche se questo significa distruggere il paese per salvare se stessi».
Del resto, anche l’inviato speciale dell’Onu, Christine Schraner Burgener, nei giorni scorsi ha ammonito che, senza «azioni potenzialmente significative», la situazione in Myanmar rischia di precipitare e ha pronosticato un «imminente bagno di sangue». Una «guerra civile che potrebbe verificarsi davanti ai nostri occhi e il fatto di non riuscire a prevenire una nuova escalation di atrocità costerà al mondo molto di più, nel lungo termine», ha sottolineato.
Di fronte alla brutalità e all’insensibilità dei militari, i manifestanti che erano scesi in piazza armati solo di slogan e avevano usato la disobbedienza civile per paralizzare il funzionamento dello Stato, hanno infatti iniziato a reagire, anche se per lo più con armi di fortuna. E nel frattempo, invece di allinearsi con i militari, quasi tutte le organizzazioni etniche armate, alcune delle quali dispongono di un numero considerevole di soldati, si sono unite contro il colpo di stato, e stanno cominciando a lanciare attacchi contro le forze armate.
Come racconta Joshua Kurlantzick sulla World Politics Review, due delle più potenti organizzazioni armate, il Kachin Independence Army e il Karen National Union, hanno attaccato postazioni militari. E l’esercito Arakan, una milizia buddista intransigente che è attiva nello stato occidentale del Rakhine, ha condannato il colpo di stato affermando che «l’intera etnia oppressa continuerà a lottare per la sua libertà». Secondo alcune stime, riferisce Kurlantzick, gli eserciti etnici dispongono di un totale di 75.000 soldati sotto il loro comando: meno, certo, dei circa 350.000 soldati del Tatmadaw, ma tuttavia un numero considerevole.
Inoltre, la situazione di instabilità potrebbe innescare nuovi combattimenti tra gruppi armati rivali, causando un caos ancora maggiore nelle campagne. Per esempio, il più grande esercito etnico, lo United Wa State Army, forte di 30.000 soldati, che controlla il territorio nel nord-est ed è anche presumibilmente una delle più grandi organizzazioni di narcotraffico del mondo, potrebbe utilizzare il vuoto di potere per cercare di consolidare o di espandere il territorio che controlla. Di questo passo, insomma, il Myanmar potrebbe diventare uno stato fallito.
Nel frattempo, un gruppo di parlamentari democraticamente eletti ha formato, in India, il Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw (Crph), una sorta di governo birmano in esilio, e ha annunciato la formazione del Governo di unità nazionale (NGU), che comprende parlamentari estromessi dai militari, rappresentanti dei diversi gruppi etnici ed esponenti dei movimenti di protesta contro il golpe ora in esilio.
Il NGU ora sollecita il riconoscimento internazionale come il vero rappresentante del Paese. E, a pochi giorni dal summit sulla crisi birmana dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, previsto sabato prossimo nella capitale indonesiana Jakarta, ha chiesto ai leader dell’Asean di non riconoscere l’esecutivo guidato dai militari. Zin Mar Aung, ex prigioniero politico, membro del parlamento deposto e ministro degli esteri del Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw (Crph), ha scritto sul New York Times che «il Myanmar è stato governato dai militari per cinquanta dei settantacinque anni in cui è stato uno stato indipendente. Ma il paese non appartiene ai militari. Appartiene al popolo».