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Voce del verbo “aiutare”

Chi ha più potere, un medico che può sottoscrivere un certificato dichiarante una patologia per la quale è prevista una provvidenza assistenziale o un premio assicurativo oppure colui che patisce o ha patito un danno? Non essendo prevista in casi simili alcuna autocertificazione, va da sé che il potere del medico è, non solo necessario, ma assoluto. Egli solo può.

E tanto è anche vero. Esistono, però, dei medici che non amano esercitare questo potere in maniera assoluta. Avvertono il bisogno, in qualche modo chiamano gli stessi pazienti a condividerlo. Dicono più o meno così: “Signora, se voi mi aiutate, io vi aiuto”, oppure: “Aiutati che vieni aiutato”.

A Verzino (Crotone) questa poesia gli abitanti l’hanno imparata a memoria. Il medico Nicola Talarico pare l’abbia assegnata come compito per casa più di una volta. I suoi concittadini ne hanno esaminato il significato e hanno deciso di passarla ai carabinieri, i carabinieri all’autorità inquirente e gli inquirenti al tribunale.

In che cosa può consistere l’aiuto del paziente l’abbiamo capito: alla patologia bisogna legare una dote in denaro, la patologia approda descritta sul certificato e il denaro in tasca al medico.

Ciò che incuriosisce in questa storia che registra, fra l’altro, diversi accadimenti, anche se non tutti andati a buon finale (per il medico) ma certamente per i pazienti, è l’uso del verbo “aiutare”. Il medico maneggia questo verbo con l’abilità di un prestigiatore teatrale. Egli sa che il potere è tutto nelle sue mani. Ha letto le analisi e gli accertamenti richiesti, ha visitato. La sua scienza gli dice: sì, la patologia c’è. Dipende adesso tutto da me, devo solo firmare. So anche che se non firmo, complico la vita al paziente che dovrà sottoporsi a nuova prassi.

E poi pensa: ma che potere è questo, se basta una firma? Troppo poco. Come fa il paziente a percepire il mio carico di potenza se gli ho appena messo una firma e tutto finisce qui? Poca cosa è una firma. Perché il potere sazi me delle sue delizie, ovvero almeno di quella che tutto dipende se io voglio o non voglio che il malcapitato goda di un beneficio economico, si rende necessario che tocchi almeno un po’ il lembo del suo portafoglio. Altrimenti, perché si dice e si ripete che io posso far piovere e spiovere?

Il potere avrebbe pure un recinto, per dir così, naturale, uno spazio di esercizio che lo contiene e lo trattiene. Guardarlo così come si presenta è grande cosa. Basterebbe tenerlo sotto gli occhi come un oggetto del quale si ha bisogno, esercitarlo e poi deporlo lontano dall’esercente. I guasti hanno inizio quando lo si personalizza, meglio sarebbe dire: quando lo si incorpora e si arriva al delirio, quando si sfiora quello che neanche Luigi XIV – dicono gli studiosi – abbia detto: “Lo stato sono io”, la medicina sono io, il padrone della sanità sono io, tutto è mio, anche miei sono un po’ di quei soldi che prenderai con il certificato firmato da me.

Di Luigi XIV si tramanda persino ben altro, una frase pronunciata sul letto di morte: “Io me ne vado, ma lo stato resterà sempre”. Al medico di Verzino sarebbe bastato un po’ meno: a ciascuno il suo, senza prevalere. A me il ragguardevole stipendio, a te il congruo sussidio. Io, la firma. Tu, la patologia.

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