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Quanti sono i luoghi che ogni uomo vive? 50 anni dalla morte di Dino Buzzati

Abbiamo accompagnato Buzzati lungo la Val Morel. Con lui ci siamo domandati: “Esiste, non esiste l’improbabile sentiero?”.

Misteriosa, infatti, è la strada che conduce alla morte. Di certo c’è solo che bisogna percorrerla. Che sia o no la Val Morel, che porti o allontani dalla Santa dei miracoli impossibili o possibili, questo lo lasciamo decidere ad ognuno di noi.

E comunque prima di confrontarsi con il più misterioso dei cammini, quanti sono i luoghi che ogni uomo vive?

I luoghi di Buzzati sono stati, nella vita e nella narrazione, le montagne, il deserto, la città.

Buzzati ha amato soprattutto le montagne, le ha scalate, conquistate, godute, sofferte. Le vette innevate, le rocce altissime, i costoni franati fanno parte della sua narrazione così come della sua pittura e soprattutto della sua vita. A Belluno, ai piedi delle Dolomiti, ha trascorso l’infanzia e lì è sempre tornato, lì si è rifugiato quando ha dovuto preparare l’ultimo viaggio. Lì ha ascoltato e letto antiche saghe montanare, lì ha cominciato ad inventarle lui stesso. Personaggi inquietanti popolano i suoi monti: giganti, gufi, gazze, venti parlanti e pietre e frane che si animano e vivono di vita propria.

E gnomi, i misteriosi guardiani delle crode. In uno degli articoli sulle montagne comparsi sul Corriere della Sera, Buzzati racconta, come fosse una cronaca nera, della impossibile difesa delle Dolomiti dagli assalti degli uomini. “A uno a uno venirono conquistati i torrioni, le muraglie, i mastii, i contrafforti…” Il turismo di massa, il bombardamento delle pareti, le vie obbligate, i vessilli piantati, i vocii…dove sono finiti gli gnomi, i nani, i folletti, gli spiriti, il Vecchio della montagna? Spariti. Possibile che sia restato solo lui con la sua penna e il suo pennello a difenderne i misteri?

Certamente questo mondo è molto vicino alla mitologia nordica, l’autore però lo ha rivisitato attraverso il filtro di una precisione a volte addirittura scientifica che sorprendentemente si combina con il favolismo magico. Al cospetto delle montagne Buzzati trova sé stesso e fa pace con il mondo e la vita non attraverso una facile visione arcadica ma con una sofferta riflessione sul destino dell’uomo. È qui che ci si confronta con le voci del bene e del male (Il segreto del bosco vecchio) e non è detto che siano quelle del bene a vincere. Se infatti c’è una morale nella storia del colonnello Proclo non è né facile né elementare, è piuttosto la constatazione amara che la vita è fatta di tormenti, di desideri inconfessabili, di destini di solitaria desolazione.

Dalla cima della montagna, guardando dall’alto la pace lontana e irraggiungibile della valle, l’uomo e l’autore possono però scoprire che il fascino della vita è accettazione e nello stesso tempo rinuncia, è speranza e contemporaneamente consapevolezza che l’attesa è vana, che ciò che poteva essere nono è stato.

La montagna rappresenta la solitudine, quell’amica, cercata, quella di chi è pronto a rischiare, a conquistare o a perdere. È la solitudine di chi rinuncia al “resto” sapendo che è relativo e che la scelta, una volta fatta, è assoluta. In un vago senso di malessere a volte si percepirà quanta sofferenza reca, eppure non importa… “Ma sopra il ciglione dell’edificio, lontana, entro ai riverberi meridiani, spuntava una cima rocciosa. Se ne vedeva solo l’estrema punta e in sé non aveva niente di speciale. Pure c’era in quel pezzo di rupe per Giovanni Drogo, il primo visibile richiamo al leggendario regno che incombeva sulla fortezza”

Le montagne sono la chiave per l’immaginazione e per la fantasia. Sono la siepe di Leopardi.

Sulle montagne è l’aristocratica solitudine dello scrittore che la raggiunge esiliandosi dal mondo degli uomini, dalla città, dalla dura competizione, dalla stessa incerta collocazione storico-letteraria, ed anche dai limiti che la vita impone.

È l’aristocratica solitudine di chi è arrivato comunque sulla cima e da lì può guardare indietro e fare la lista degli sbagli, delle scelte azzardate, dei ritardi, delle audacie. Può riandare ai momenti di sconforto e disperazione e a quelli di euforica esaltazione. Può risentire i venti e le tormente e i cieli di azzurro cobalto e i raggi che scaldano. Può riandare con i ricordi a chi era in cordata con lui, a chi ha teso un chiodo o la mano, a chi ha lasciato andare e pertanto essere preso da tremore e timore. Eccolo lì Buzzati nella vertigine del vuoto, nella solitudine di chi muore. Arrivati sulla cima non c’è altra roccia da conquistare, altro cammino. Non resta che compiere quel passo. Nel vuoto?

Allora Dino Buzzati staccò gli aghi dall’ipodermoclisi e abbassò le palpebre come se vivesse o scrivesse, per lui era lo stesso, il finale di un ultimo racconto che potrebbe cominciare così: In quel preciso momento del 28 gennaio 1972…

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