Si sa che il jazz ha accompagnato la lotta per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti. Basterebbe ricordare «Strange fruit» di Billie Holiday, che alcuni anni fa il settimanale «Time» ha indicato come il monumento musicale del secolo. Una canzone bellissima, drammatica e agghiacciante sui linciaggi dei neri nel Sud degli Stati Uniti (infatti, lo «strano frutto» di cui si parla nella canzone è il corpo di un nero che penzola da un albero) che la cantante eseguì per la prima volta nel nightclub Café Society di New York nel 1939.
Oppure «Fables of Faubus» che Charles Mingus scrisse (e incise nel 1959 nel disco «Mingus Ah Um») come protesta diretta contro le azioni del governatore segregazionista dell’Arkansas, Orval E. Faubus, che si oppose alla storica decisione della Corte Suprema che intimò agli Stati di integrare gli studenti afro-americani nelle scuole pubbliche.
Oppure «Alabama», il brano composto da John Coltrane (incluso nell’album «Live at Birdland») in risposta all’attentato razzista del Ku Klux Klan del 15 settembre 1963 all’interno di una chiesa battista nella cittadina di Birmingham, in Alabama, nel quale rimasero uccise quattro bambine.
E ancora «The Freedom Suite» di Sonny Rollins, uno dei più famosi ed apprezzati sassofonisti del periodo che, nonostante il successo, quando tentò di affittare un appartamento a New York, dovette affrontare lo spettro del razzismo: l’appartamento gli venne rifiutato perché nero («In quel momento – spiegò poi Rollins – la cosa mi colpì molto: cosa significa quel successo se alla fine ero ancora un negro, per così dire?»). E potrei continuare a lungo.
Del resto, nella cultura afroamericana il jazz è stato, ed è tutt’ora, per citare le parole pronunciate dal Reverendo King, «una musica trionfante».
«Dio – disse Martin Luther King nel denso discorso che tenne all’apertura del Jazz Festival di Berlino nel 1964 – ha estratto molte cose dall’oppressione. Ha dotato le sue creature della capacità di creare. E da questa capacità sono sgorgate le dolci canzoni del dolore e della gioia, che hanno consentito agli esseri umani di adattarsi a tante situazioni diverse. Il jazz parla per la vita. Il blues racconta la storia delle difficoltà nel vivere. Le più dure realtà della vita sono state messe in musica, e ne sono state trasformate con una nuova speranza o un senso di trionfo. Questa è una musica trionfante.
Il jazz moderno ha continuato questa tradizione, cantando le canzoni di un’esistenza urbana più complicata. Quando la vita stessa non offre più né ordine né significato, il musicista crea un ordine e un senso dai suoni della terra che scorrono dentro il suo strumento.
Non stupisce che tanta parte della ricerca di un’identità tra i neri americani sia stata promossa dai musicisti jazz. Molto prima che gli intellettuali dei nostri tempi scrivessero sull’identità razziale come problema in un mondo multietnico, i musicisti tornavano alle loro radici per affermare ciò che si agitava dentro le loro anime.
Tanta energia del nostro movimento per la libertà, è venuta dalla musica. Ci ha rafforzati coi suoi dolci ritmi quando il coraggio ci veniva a mancare. Ci ha calmati con le sue ricche armonie quando avevamo perso fiducia. E adesso il jazz viene esportato nel mondo. Perché nella lotta specifica del nero americano c’è qualcosa in comune con la lotta universale dell’umanità contemporanea.
Ciascuno ha il suo blues. Ciascuno anela a un significato. Ciascuno ha bisogno di amare e di essere amato. Ciascuno ha bisogno di battere le mani e di essere felice. Ciascuno ha bisogno di fede. Nella musica, specialmente in questa vasta categoria chiamata jazz, c’è un primo passo verso questi traguardi».
Ma c’è di più: per Wynton Marsalis, il celebre trombettista che da molti è stato descritto come il musicista jazz più importante della sua generazione, «la musica jazz è la metafora perfetta per la democrazia».
In un momento in cui l’America (e, a dire il vero, il mondo intero) si trovano ad un bivio, il compositore vincitore del Premio Pulitzer ha trovato l’ispirazione per scrivere un lavoro toccante (e pimpante): «The Democracy! Suite», una risposta (artistica) in otto parti alla crisi politica, sociale e sanitaria che oggi stiamo affrontando.
L’album digitale di Marsalis e del settetto composto da membri della famosa Jazz at Lincoln Center Orchestra, è stato registrato dal vivo nella Appel Room del Jazz at Lincoln Center durante il lockdown imposto dal Covid-19 e uscirà tra qualche giorno.
Wynton Marsalis ripete da tempo che «il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia» e, nell’intervista con la quale ha presentato l’album, ha detto: «Una democrazia è un organismo che vive e respira e che rende possibile la scelta individuale innalzando la causa comune. Questo è anche l’obiettivo del jazz. Nella nostra musica, ogni volta che suoniamo abbiamo la libertà personale di improvvisare tutta una nuova serie di possibilità e condividiamo altresì l’obiettivo comune di trovare e mantenere un equilibrio collettivo che chiamiamo swing».
L’album di Wynton Marsalis ha l’obiettivo dichiarato di sollevare, ispirare e galvanizzare gli ascoltatori, incitandoli a lavorare insieme per un futuro migliore; e sebbene la musica di «The Democracy! Suite» sia strumentale, parla da sola, esortandoci a lottare per il mondo in cui crediamo. Proprio come ai vecchi tempi. E chissà che, come ai vecchi tempi, dalla musica non ci venga un pò di quella energia di cui oggi abbiamo disperato bisogno.