Parlare di Marco Pantani è tornare giovani. Avvicinare un figlio di vent’anni con l’aria del nonno che ne ha viste tante. E che non capisce di cosa parliamo.
Eravamo a cavallo dei trent’anni quando Marco trionfò al Giro e al Tour del 1998. Eravamo nel secondo anno dell’Ulivo, con Romano Prodi e la sua squadra che stavano pazientemente ma con caparbietà cercando di cambiare l’Italia. Prima che i residuati alla Bertinotti affossassero tutto. Prima di quel 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando l’ematocrito di Pantani superò il limite massimo di sicurezza e il ciclista fu costretto a fermarsi.
Romano Prodi e Marco Pantani. Chissà perché questo accostamento. Forse era solo la speranza di un’Italia migliore, guarita dai suoi mali atavici, vincente nella terra dei Galli, che ci amano a modo loro, quando tiriamo fuori quelle qualità italiche di resistenza e coraggio che, del resto, cantava anche Paolo Conte. I francesi ci rispettano, anche se le balle ancora gli girano.
Eravamo più giovani ed il ciclismo ci appariva ancora lo sport duro dei tempi di Bartali e Coppi, ancora senza caschi, senza auricolari e senza squadre robot di oggi che preparano il terreno per il capitano che si risparmia in attesa della zampata finale. Pantani non si risparmiava quando arrivava il momento giusto. Quando sentivamo Adriano De Zan, con la sua voce teatrale, gridare “il pirata è partito!” ci veniva su un brivido per la schiena. Ci sembrava che Marco ci trascinasse con se sulle salite.
Ma sì, sono i dolci ricordi dei tempi giovanili. Ogni generazione ha i suoi ricordi, quelli a colori, in bianco e nero oppure nelle pagine stampate della Gazzetta post-guerra. Eppure non è solo questo.
Su Pantani ho letto libri di ogni genere ed ogni volta mi commuovo a pensare alla notte di San Valentino del 2004 in cui è morto solo. Non credo ai complotti. Marco era ormai entrato in una spirale di depressione e di solitudine (anche Christina Johnsson l’aveva lasciato nel 2003) in cui la droga aveva preso il posto del suo cuore.
Non doveva e non poteva finire con la morte, ma in questa tragica parabola non c’è, purtroppo, niente di nuovo. Una sconfitta umana che segue alla caduta dell’atleta. Chi non si arrenderebbe ad un destino così nero? Semmai ci sono ancora tanti dubbi su quel giorno a Madonna di Campiglio. Complotto della camorra che aveva scommesso sulla sconfitta del campione? Errore dei preparatori? Scambio di provette? Oppure doping?
Il documentario di Paolo Santolini non fornisce risposte. Occorrerebbe andare a scavare tra montagne di documenti giudiziari, legali, medici in cerca di una verità più elusiva che mai, con la paura di scoprire che anche Marco, come tanti altri grandi ciclisti dell’epoca, faceva uso di sostanze dopanti.
Bisognerebbe smontare quel circo mediatico e giudiziario che prima l’ha esaltato e poi l’ha frettolosamente messo da parte, quasi con imbarazzo, come accadde al direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò, che forse Santolini accusa con una certa leggerezza di aver scaricato il campione.
Cambierebbe qualcosa? Lance Armstrong, campione infame della chimica, oscuro signore del peloton che non ammetteva critiche, non è mai stato simpatico a nessuno. Marco, anche se si dimostrasse che avesse preso qualcosa di cui il suo immenso talento non aveva bisogno, non perderebbe nulla della sua umanità.
La racconta Santolini, facendo parlare la famiglia, gli amici e la sua Cesenatico, un borgo marino come tanti in Italia, con i suoi riti e i suoi personaggi. Un’Italia minore e tosta, vincente quando il campo è livellato, eppure sempre destinata alla sconfitta dopo una breve parentesi di gloria. Come accade alle località di mare, che in quattro mesi consumano la vita di un anno. Non lo diceva anche Enrico Ruggieri in “Mare d’inverno”?
E io che non riesco nemmeno
A parlare con me
Mare mare
Qui non viene mai nessuno
A trascinarmi via
Mare mare
Qui non viene mai nessuno
A farci compagnia
Sembra una canzone scritta per Marco, dopo le ultime glorie del 2000 e l’inarrestabile declino.
Nel nobile tentativo degli amici e dei familiari di difendere la memoria di Marco, c’è qualcosa che manca, una domanda che frulla nella testa: dov’erano tutti quando Marco si è lasciato andare nella spirale verticale della cocaina? Lo sforzo di proteggerlo si spinge anche a tralasciare la figura di Christina Johnson, sua fidanzata per otto anni, che appare in pochi frammenti non granché significativi.
Credo che si tratti di una forma estrema di rispetto, non di omertà. Tutti rimanemmo sorpresi di quella morte, come se non avessimo capito l’estrema fragilità di una persona a cui la vita aveva dato una dose più che abbondante di sofferenza. Ci illudevamo che si sarebbe miracolosamente ripreso, come nella salita del Mont Ventoux il 13 luglio 2000, la sua penultima vittoria, davanti al bandito Armstrong.
Nessuno ha preso alla lettera quelle terribili parole pronunciate il 5 giugno 1999: “ripartire stavolta sarà dura, durissima: io ce l’ho fatta dopo i gravissimi incidenti che ho subito, vedremo. Pretendo soltanto un po’ di rispetto.” Era una resa che non abbiamo voluto ascoltare.
Santolini non tenta la facile operazione commozione. Sarebbe bastata una colonna sonora strappalacrime. Oppure infiliare in sequenza i frammenti televisivi degli arrivi vittoriosi. Invece si ferma sempre un attimo prima, sulla fatica, e un attimo dopo, per cercare di avvicinare l’uomo che soffre. Che non smetterà mai di soffrire. E noi con lui.
Ci restano ancora le immagini di un’Italia che sembra solo superficialmente la stessa di oggi: le spiagge dell’Adriatico, i tornanti del Carpegna, le tavolate dei parenti, gli interni dimessi di cucine da Mondo Convenienza, con donne grosse che cucinano piadine ed umili lavoratori che, anche se oggi hanno un titolo di dottore, non si sentono importanti. Un’Italia fine anni novanta, quando si poteva ancora sperare nel meglio. Dopo ogni caduta, ci si rialza. E chi non si rialza, merita lo stesso il nostro amore.