C’è un medico di pronto soccorso in un ospedale calabrese che parla con gli occhi: prima di tutto alla sua equipe, ormai abituata a non dover tendere le orecchie ma a cogliere lo sguardo.
Quando si avvicina alla persona che lo attende, lo raggiunge alle labbra offrendogli l’orecchio e poi sussurrargli poche sillabe. L’altro orecchio è per le persone che stanno intorno. Il primo effetto che produce questo suo avanzare è produrre intorno un grande silenzio. Si muove con eleganza, si fa spazio senza doverlo chiedere e, paradosso, ognuno degli astanti capisce che deve raggiungere il suo posto, un metro, due, tre, meglio l’altra stanza di casa o la porta d’uscita.
Quanto avrà studiato, questo medico, per maturare questo stile d’approccio che non fuoriesce di tanto in tanto – così come confermato da altre voci consultate -, ma si rivela piuttosto come una postura professionale? Avrà studiato molto sicuramente, e alla fine ha fatto una scelta. Importante – avrà pensato – è realizzare un intervento efficace e lì dove è richiesto non c’è tempo per ammaestrare folle, far tacere voci, coprire con la propria quella altrui.
C’è solo bisogno di gentilezza, umiltà e salvaguardia delle cose primarie. Anche queste trasmettono autorevolezza, e di questa c’è bisogno perché lì dove c’è una persona che soffre l’avvicinarsi del medico è peculiare, unico nel suo genere, essenziale, e di forte penetrazione: andare al centro del problema ed evitare di perdercisi intorno. Questo sa il medico, e come lui non lo sa nessuno, neanche l’affetto e il legame più intimo con colui che è da soccorrere.
Vale qui ripetere il contrario, ovvero quello che diffusamente accade in simili frangenti? Ne sono piene le cronache e ne sono piene le teste di quelli che ne hanno dette e ascoltate di cotte e di crude, comprese quelle basse e infime.
Si tratta di eccezioni, ossia di scene che si verificano solo nei casi di pronto soccorso? No, purtroppo sono scene, queste assai scadenti, che troviamo e aiutiamo ad alimentare in molti altri teatri della nostra vita quotidiana: uffici, mezzi di trasporto, luoghi pubblici, forse anche chiese e santuari, reparti d’ospedali, senza escludere il cimitero.
Se le cose stanno così – e pare che così e anche peggio stiano – è segno che manca qualcosa. Dire “manca” è esagerato? Scaliamo di un gradino e mettiamola in questi termini, scriviamo: forse abbiamo messo tra parentesi “la gentilezza”, non da oggi, ma da qualche decennio. Stiamo provando e riprovando a farne a meno, e al suo posto abbiamo introdotto, in dose massiccia e giorno dopo giorno al rialzo di intensità: la rudezza che si fa rozzezza che si fa inciviltà che si fa sopraffazione e poi violenza. Abbiamo abbassato l’astina e ci sta precipitando addosso un sacco di melma (con la elle dove starebbe meglio la erre).
Come se la gentilezza potrebbe mai essere la virtù dei deboli e non dei forti, degli animi poco virili e non di quelli marcatamente umani, abbiamo e stiamo pretendendo di procedere in tutte le pieghe e le insenature dell’umana convivenza. Senza accorgerci che così facendo stiamo sottraendo umanità al nostro essere uomini e donne, anziani e bambini. E tutto questo si chiama povertà. Sì, riconosciamolo: siamo più poveri e anche afflitti, e feriti torniamo a casa la sera e ne usciamo al mattino, forse con dentro l’animo il malcelato proposito di farci anche noi soldati di quella considerata il giorno prima rustica genia. Non si spiega altrimenti, perché è così che se ne infittiscono le truppe.
Si potrà fare mai qualcosa? Certo. Una rivoluzione. La sola degna di questo nome, che è poi l’unica realmente efficace. Dovrebbe avere i connotati di un cambiamento di mentalità. Basta un giorno? No, occorre qualche decennio. Sarà opportuno scendere in piazza? No. Occorre calarsi dentro sé stessi. Tutti insieme? No. Ognuno per conto suo. Dentro l’animo di ciascuno, sia pure accantonata in qualche ripostiglio da rivisitare, qualcosa c’è e va portata in superficie.
C’è un aiuto che potrebbe venire dall’esterno. Impostare in ogni città un assessorato, denominato, appunto, “della gentilezza”. In molte realtà italiane l’hanno fatto. Ultimamente ad Orvieto, dove responsabile è una professoressa di lettere e filosofia in pensione. Non dovrebbe costare molto questo organismo assai semplice nella struttura. C’è la rete e ci sono le biblioteche, non dovrebbe essere difficile trovare connessione e scambio. Si instaura un bel dialogo, si conosce, si studia, si ascolta e si divulga.
Il tutto con gentilezza, per far tornare in mezzo a noi quella perduta che –ahinoi – si è portata via un pezzo consistente della nostra umanità.