Sono trascorsi 25 anni dall’omicidio di Iqbal Masih, un operaio, un guerriero, un bambino. Di tutte le ovvietà che possono essere dette sul simbolismo della sua lotta, sull’impatto della sua figura, una cosa è certa: a soli 12 anni, Iqbal fu dotato di un coraggio per nulla semplice da custodire e da applicare all’interno di un quotidiano in cui lottare significa spesso mettere in pericolo sé stessi o le persone che amiamo. Aveva quattro anni quando fu venduto la prima volta a un commerciante di mattoni pakistano per ripagare un debito di famiglia, contratto per il matrimonio del fratello, giustificazione abbastanza comune a legittimare l’ingresso di un bimbo nel “mondo del lavoro”. Un lavoro che valeva 3 centesimi di euro al giorno; la sua libertà 13 mila rupie, poco più di 80 euro.
In Pakistan, i bambini erano merce preziosa, lo sono a tutt’oggi in svariate parti del mondo, costano poco, sono obbedienti, semplici da punire o da torturare. Iqbal non giocò, non andò a scuola, non crebbe neanche in altezza; a dieci anni aveva il volto di un vecchio e la conformazione di un bambino di sei. Non si rassegnò mai a quelle condizioni di vita finché non riuscì a farsi sentire, liberandosi dalla schiavitù, nella primavera del 1992, dinnanzi alla platea del Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato. In breve tempo, grazie al sostegno di Eshan Ullah Khan, leader del BLLF (Bonded Labour Liberation Front) e suo padre putativo la ribellione di Iqbal diventò un punto di riferimento per portare alla luce l’orrore di milioni di bambini schiavizzati. Lottò per tutti e contro tutti e fu anche felice, per un po’. Fu difeso e amato da Eshan Ullah Khan, come merita un bambino.
Ci fu però lo stesso chi decise ancora una volta per lui. Il suo omicidio, avvenuto il 16 aprile del 1995 per mano della “mafia dei tappeti”, fu insabbiato sotto le spoglie del gesto di un folle, un fanatico cocainomane. Il suo corpo fu ritrovato per strada, con la Bibbia nel taschino. Nonostante l’evidenza delle circostanze, la sua famiglia d’origine continuò a negarne la schiavitù anche dopo la morte del bambino, sostenendo al contrario che quella di lavorare fosse stata una sua scelta. “Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite” rappresenta a tutt’oggi un messaggio universale, un atto scontato da mettere in pratica con maggiore consapevolezza.
Iqbal avrebbe avuto su per giù la mia età oggi; il suo sogno era quello di fare l’avvocato ma il romanticismo mi porta a pensare che sarebbe stato un po’ sopra le righe, impegnato a bacchettare chi attacca o strumentalizza i capitani coraggiosi sin da piccoli, proprio come lo era lui. Che poi, alla fine, chissà perché i bambini fanno ancora così paura.