Colazione. Lusso di cui ancora non riesco a capacitarmi dopo anni e anni di caffè ingollato in fretta tra figli da spronare a non fare tardi e studenti che mi aspettavano per la prima ora. Tè, un ottimo tè e i soliti biscotti del supermercato.
Mi blocco con la teiera in mano. No, oggi voglio fare una colazione come si addice a una vera figlia della Calabria. “Calabria, terra mia”.
Via questi infusi provenienti direttamente dall’Inghilterra o addirittura dalla Cina, paesi stranieri che nulla hanno a che fare con le nostre belle tradizioni. Ci vuole una bella spremuta, a mano, senza spremiagrumi elettrico, (infernali aggeggi moderni) di… vediamo un po’… bergamotto. Sembra un limone, ma in realtà è tutt’altro. È l’oro della Calabria. Non lo sapevate? Ora lo sapete. Lo posso mangiare, o bere, e la buccia la farò poi macerare nell’acqua e la userò come profumo. E per la bevanda è fatta.
E poi? Niente dolce, salato. L’ideale è una buona fetta di soppressata. Vuoi che non l’abbia nella dispensa o nella vecchia credenza mia sorella? Presto, un salto all’antica casa con l’intonaco che cade e il portale maestoso. E sì, mia sorella me l’ha conservata la soppressata. La figlia, una ragazzina veramente a modo, con boccoli e gonna al ginocchio, mi chiede <<Dove vuoi che ti “porto” la soppressata? a casa?>> C’è qualcosa che non mi torna nella domanda, ma non è certo la mancanza di finocchietto. Deve essere qualcosa che ha a che fare con la grammatica della scuola elementare. Sì, grazie.
Torno a casa e lungo la strada approfitto per salutare la Comara che si affaccia dal balconcino e mi chiama a gran voce mentre dei ragazzi, amici dei miei figli, seduti sulla panchina (sono in ferie, hanno perso il lavoro, il lavoro non lo cercano, hanno diritto al reddito di cittadinanza, sono i risaputi fannulloni meridionali?) elegantissimi in bretelle e coppola, barba nera e folta, mi chiedono se sto andando a fare una passeggiata fra i filari di clementine. Mi fanno tornare in mente mio nonno e le profonde, esistenziali domande e risposte che ci scambiavamo.
A casa. Mi preparo la tavola per la sospirata colazione. Scelgo una bella tovaglia a quadretti rossi, un sobrio piatto di terracotta. Metto su una bella musichetta orecchiabile e popolare che mi accompagnerà. Mi accingo a gustare le mie delizie, ma sono interrotta da mio nipote che urla dalla strada che lo scooter non gli parte. Mi sporgo dalla finestra e lo rassicuro <<Puoi prendere l’asinello, a me oggi non serve>>. Mio nipote lo afferra dalla cavezza e si incammina mentre io sbracciandomi gli lancio un “Alla salute” di arrivederci.
Mi attardo compiaciuta a guardare la piazza sottostante dove le buone donne riempiono grandi ceste di clementine, mentre i buoni mariti fanno la partita a carte a tavoli da quattro. Meno male che hanno messo la canottiera, comincia a fare un po’ fresco, si dicono tra loro le brave massaie. Sospiro soddisfatta e chiudo le imposte dimenticando di avere poggiato sul davanzale un grande piatto rustico, ricolmo di tutti gli agrumi calabresi, che precipita giù.
Mi sporgo a guardare, tra il panico e la speranza, se sia caduto sulla testa giusta tutto questo bendidio della “Calabria, terra mia”.
Patologia: deriva insidiosa verso banalità, stereotipi, cliché.
Terapia: lasciate stare succhi e pregiudizi improponibili e bevete un buon tè inglese Earl Grey (tanto è aromatizzato con scorza di bergamotto) e contemporaneamente sfogliate una Grammatica italiana. Qui vi potete accontentare anche di un testo per scuola elementare.