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Isabella Morra, il canto di una esistenza infelice

Dobbiamo inerpicarci tra vicoli stretti e case di pietra addossate l’una all’altra per raggiungere il castello di Valsinni, antica Favale, al confine tra la Basilicata e la Calabria. Ci fa compagnia in questo luogo salvato dai rumori delle auto e delle TV accese, la voce del fiume Siri, del “torbido Siri”.

Se poi ci addentriamo tra le antiche mura del castello e ci affacciamo da una delle strette finestre contempleremo un paesaggio di creste alte, pendici ripide, e la valle nella quale il fiume scorre. La rocca tutta sembra quasi inghiottita, sprofondata nel paesaggio e nel silenzio.

Non ci sarà allora difficile immaginare la giovane Isabella dietro quella finestra, e non ci sarà difficile raccontare una vicenda che tante volte abbiamo già ascoltato, che riconosciamo nella solitudine di una vita, nella disperata speranza di un’evasione impossibile, nel lamento tutto interiore che sfocia infine in rime, nel vagheggiamento di un amore, reale o tutto da inventarsi.

La storia di Isabella Morra è lineare nel suo percorso, oggi potremmo sovrapporla a centinaia di vicende simili. Basterebbero poche righe su un giornale e una lettura non più di tanto curiosa in quanto sappiamo in partenza come vanno queste storie di donne uccise da un familiare. Non eccitano più la fantasia, giusto qualche particolare morboso.

Isabella è giovane, certo bella anche se non c’è nessun ritratto a confermarlo, aristocratica, colta, ammalata di solitudine. Vorrebbe leggere, viaggiare, conoscere. Disprezza la elementare visione di vita dei suoi fratelli, la sottomessa pavidità della madre, la rozzezza del volgo che la circonda, le vette aspre che imprigionano il castello. Invoca invano il ritorno del padre in esilio. Ricorre allora alla sola fuga possibile, un carteggio letterario con un ardito poeta, Diego Sandoval de Castro. Solo letterario? O in quelle lettere ricevute e spedite con sotterfugio si nasconde cifrato tra versi un ricambiato amore? Chi può dirlo.

Quel carteggio non è arrivato a noi, resta solo la testimonianza della moglie del fuggiasco Diego che diceva “che dicto don Diego havea festeggiato la sorella del dicto barone et fratelli” e che pertanto se l’era meritata una morte giunta a colpi di archibugio della quale furono assolti i “dicti fratelli”. Isabella non pianse l’amato o amico che fosse non perché non fosse addolorata da quella notizia, ma semplicemente perché lo aveva preceduto nella stessa sorte per mano degli stessi fratelli, lei non in un infido bosco ma nelle rassicuranti mura della casa natale. Solo i colpi di archibugio non furono sparati bastando, visto la familiarità delle persone deputate a difendere l’onore, un più casalingo coltello.

Caddero dalle sue mani le lettere incriminate? Si bagnarono del suo sangue? Fece in tempo Isabella a scrutare ancora una volta il lontano mare con le sue onde di speranza? Ricordò il suo Diego e, ci auguriamo, poté riassaporare momenti di amore? O non le restò che lo sgomento per visi e coltelli che credeva fratelli?

Storie antiche ma anche contemporanee di catene vere o solo interiori che legano la vita, e con la vita la gioia il presente il futuro, e che fatalmente conducono alla morte.

Povera baronessa di Carini: “Signuri patri chi venisti a fari? Signora figghia, vi vegnu ammazzari”, povera Francesca “ colomba dal disio chiamata”, povera spavalda Carmen, “Ah! Carmen! Mia Carmen adorata” e pertanto uccisa da don José. E povere Ornella Tina Silvia, e altre 100 solo in Italia nel 2021, la cui morte per mano di un familiare non è stata cantata da nessun poeta.

Isabella se la cantò da sola la sua infelice esistenza prendendo Petrarca come modello senza ridurlo tuttavia a uno sterile esercizio letterario, ma aggiungendovi una sensibilità tutta personale, una voce artistica distinguibile tra quelle delle altre poetesse del ‘500 per eleganza formale malgrado lei dichiarasse il suo stile “ruvido e frale”. I suoi versi non esprimono un dramma intimo, ma diventano paradigma umano e artistico di una dimensione ampia e condivisa del dolore. Non a caso molti critici le affiancano Leopardi.

Sono belli i pochi sonetti e le canzoni, soltanto 13 in tutto, che sono giunti a noi. Certo la poetessa ne scrisse molto di più, non le sarà mancato il tempo di intrecciare trame di parole su un ordito di interminabili vuote giornate e lunghi silenzi.

Non si lascia consolare nelle sue rime Isabella dal paesaggio che la circonda, dall’attesa del padre con cui condivideva cultura e affetto, dal desiderio di andare via, e pertanto grida la sua disperata speranza, il suo rifiuto di accettare la volgarità di persone e luoghi che la circondano, rivendicando una statura personale che con loro nulla ha a che fare.

Isabella è consapevole di trovarsi in una posizione culturale, spirituale, intellettuale al di sopra dell’antica Favale, di quello che Favale comporta, del suo tempo. Da questa estraneità deriva l’approdo ad una visione religiosa che caratterizza gli ultimi componimenti e che pare recare se non felicità almeno pace.

Sono versi coraggiosi i suoi, hanno l’impeto della rivolta e la forza di un elevato linguaggio poetico. Certo per questo furono pubblicati per la prima volta a pochi anni dalla sua morte.  La giusta collocazione di Isabella Morra nella storia della letteratura però è dovuta soprattutto alla critica che ne fece Benedetto Croce alla quale seguirono molti studi e scritti e tra tanti, i lavori teatrali di Dacia Maraini e Andrè Pierre de Mandiargue. Infine l’istituzione di un Parco letterario a lei intitolato che produce molte e interessanti attività.

Il rischio per Isabella Morra è che ci si innamori più della sua tragica storia che della sua autentica arte. Che la visita del “denigrato sito”, l’ascolto delle leggende che la vedono aggirarsi per il lugubre castello, la voce del “torbido Siri” che ne piange la feroce e giovanile fine, possano ucciderla ancora una volta nella banalità di un’arte raccontata come una favola e non come una pagina di autentica letteratura quale in realtà è.

“de’ gravi affanni deporrò la salma, 
e queste chiome cingerò d’ alloro.”

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