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Storia minima dei mercoledì

Mercoledì di un mese qualunque, di una settimana qualunque. Mercoledì senza storia. Teiera di giorni feriali, tè verde bevuto e ribevuto, soliti biscotti, soliti giornali online. Solito angolo strabico: un’occhiata al mare, una alle colline. Il solito Salterio di Bose accanto. Eppure qualcosa non torna in questo cliché abitudinario del giorno che inizia. Qualcosa manca. Rifaccio l’appello: mercoledì, tè, biscotti, giornali, Salterio. Routine. Tutti presenti. Bevo, inzuppo, guardo, leggo, sfoglio e il tarlo continua a rodere nella mente. Un piccolo disagio. La tovaglietta ben spiegata, il vassoio lucidato. Finanche il volo della cinciallegra sul noce cattivo ripassa saltelli consumati. Silenzio.

Ecco quello che manca. Il campanello che rompe il silenzio. Fra la prima e la seconda tazza di tè lei non bussa.

Da tre, quattro anni lei bussa fra la prima e la seconda tazza di tè. Riconosco il tocco, esitante e nello stesso tempo insistente. Nel prolungarsi di quell’attimo in più, riconosco il suo timore di non ricevere risposta. Tutti i mercoledì io rispondo affacciandomi dal balcone, sia bello sia brutto il tempo, per un sentimento di condivisione con lei che, con gelo o afa, pioggia o sole, fra le 8 e le 8e30 bussa puntuale al mio portone.

“Buongioornooo” mi saluta con cadenza strascicata e non aggiunge altro, forse un accenno di sorriso. Quanti anni avrà? Un’età indefinibile tra i venti e i quaranta. Di corporatura piccola, non bella. D’inverno più infagottata che vestita, d’estate con lunghe e colorate gonne. È rom, vive in un accampamento, dice di un fratello ammalato, di qualche breve rientro in Romania, di una predilezione per la cioccolata e per i profumi. Questo è tutto quello che so, in realtà dovrei anche conoscere il nome, ma non sono riuscita a capirlo.

Io le chiedo dal balcone: Come va? Lei risponde con un’espressione a metà tra il sorriso e una smorfia. Io lancio le monete e mi mette a disagio, mi mortifica il fatto che debba chinarsi a raccoglierle. Mi riprometto ogni volta che il prossimo mercoledì scenderò giù al portone e gliele porgerò, per accorciare le distanze tra il dare e il ricevere, per essere alla stessa altezza, per guardarci negli occhi. Intanto lei si rialza e questa volta mi fa un aperto sorriso Buona giornata, dice, Anche a te buona giornata. Io chiudo il balcone, lei si avvia verso un altro portone. Non mi chiedo che fine faranno i miei spiccioli e gli altri che raccoglie, cosa c’è dietro, cosa non c’è, cosa non va. Troppo difficile o troppo facile sapere. Voglio solo pensare alla professionalità con cui svolge il suo lavoro, senza un giorno di congedo, di malattia, di vacanza. Precisa, affidabile, puntuale. Mi chiedo quanti lavoratori in Italia, e non solo, eseguono così rigorosamente le loro mansioni.

Scorrono i titoli di apertura dei giornali e sono tutti sul Covid. Numeri, percentuali, tassi in una disamina minuziosa. Cause e conseguenze. È forse tra le conseguenze che troverò la risposta a queste assenze che, solo ora me ne rendo conto, durano da più settimane? Forse le nuove regole non consentono più i suoi spostamenti, forse è in Romania e non può tornare in Italia, forse il fratello ammalato ha bisogno di assistenza, forse è positiva, forse è in un ospedale, forse senza respiro in una baracca. Forse devo cercarla tra i 731 morti di oggi?
Se per me, per tanti privilegiati come me, Covid significa tristezza di giorni difficili, solitudine, mancanza di vicinanze affettive, perdite dolorose e definitive, incertezza, paura. Cambiamento di stile di vita, complicazioni di ordinaria amministrazione, mascherine, distanziamenti, rinunce. Cosa significherà per l’innominata rom e per tutti gli altri innominati della terra?

Non mi va più il mio caldo tè, la teiera di ghisa, i biscotti, la routine, i titoli dei giornali, i mercoledì. Resta il Salterio di Bose, di Enzo Bianchi. Pregare è difficile, a volte quasi impossibile anche in questo tempo duro che potrebbe declinarne l’esigenza, la semplificazione. L’ultima spiaggia (Proviamo anche con Dio, non si sa mai, cantava la Vanoni). Eppure pregare a volte è l’unica via percorribile nei grandi inciampi della vita. Se solo sapessimo come si fa. Ecco, i Salmi sono quel come si fa. Trovano le parole. Ci danno il coraggio di pregare Dio per il possibile e l’impossibile, ci insegnano a invocarlo Padre o a imprecarlo per la sua distanza impassibile. Ci regalano espressioni di felicità di fronte al giorno che nasce, al cielo i monti il mare, di sgomento per la nostra vita effimera come un filo d’erba, un soffio, di liberazione dalle sofferenze della carne, della solitudine e della sconfitta. Sono il canto del re e dell’oppresso, del giusto e del malvagio, del fedele e del traditore. Dei nominati e degli sconosciuti della Storia e di questa storia minima fatta di mercoledì.

Patologia: stati di inquietudine
Terapia: rinunciare per alcuni mercoledì alla colazione e immergersi nella lettura dei Salmi.

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