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Che cosa cambierà ora nella politica estera degli Stati Uniti e che cosa, invece, non potrà cambiare?

Un dichiarato internazionalista con decenni di esperienza di politica estera alle spalle, come Joe Biden, non potrebbe essere certo più diverso dal Trump che ha portato in dote la filosofia di «America first» e nessun curriculum diplomatico. Sul New Yorker, Robin Wright identifica, appunto, i sette pilastri della possibile politica estera di Biden da presidente: un ritorno all’alleanza Occidentale, la «messa in comune delle risorse» per affrontare minacce comuni, la «fiducia nei trattati e nelle istituzioni internazionali», il convinto sostegno dei diritti umani, severità nei confronti dei dittatori e dei regimi antidemocratici, essere «più rispettosi dei paesi con scarse risorse e scarso potere», e un globalismo impenitente che guiderà l’approccio di Biden alle principali questioni come il terrorismo e la ripresa economica globale.

E tuttavia non tutto è destinato a cambiare. Josef Joffe scrive su Project Syndicate che per quanto Biden possa essere liberal e internazionalista, la competizione tra potenze non scomparirà completamente. «Anche se Biden si presenta come l’anti-Trump, per quel che riguarda la Cina, la Russia e la competizione commerciale con l’Europa, continuerà a perseguire alcuni degli stessi fondamentali interessi strategici degli Stati Uniti», scrive Joffe. Certamente, «come dicono i francesi, è il tono che fa la musica. L’amministrazione Biden porterà un cambiamento gradito nello stile della diplomazia americana, sostituendo la brutalità di Trump con una garbata professionalità.

Come nella vita privata, il rispetto e la civiltà possono molto nelle relazioni internazionali», scrive il publisher-editor del settimanale tedesco Die Zeit. Ma Biden non offrirà «pasti gratis», prevede Joffe: «Il potere è il potere, e il potere americano resta globalmente senza rivali. Tutti coloro che temevano e disprezzavano Trump dovrebbero sentirsi rassicurati dal risultato delle elezioni del 2020. Senza dubbio Biden brandirà la potente spada americana con più giudizio, e con un volto più amichevole. Dopo l’Inauguration Day a gennaio, l’America sarà nuovamente, aperta al pubblico, pronta a fare affari. Ma il mondo dovrebbe prepararsi a contrattare fino allo sfinimento».

Nathalie Tocci, su Affari Internazionali, ha giustamente sottolineato che Trump ha incarnato valori e interessi che «sono organici a un segmento importante della società statunitense» e «ha impersonato una visione del mondo che si è fatta strada attraverso generazioni, generi e background etnici». Secondo il direttore dell’Istituto Affari Internazionali, si tratta di una realtà che «non possiamo ignorare» e che ha «tre principali implicazioni per l’Europa»: il protezionismo negli Stati Uniti è destinato a restare; la nuova amministrazione sarà assorbita dalle priorità nazionali («la lotta alla pandemia e il rilancio dell’economia verranno prima di tutto»); la contrapposizione tra Stati Uniti e Cina non cesserà.

L’antagonismo verso la Cina è, in effetti, molto diffuso tra l’opinione pubblica statunitense ed è condiviso da entrambi gli schieramenti al Congresso. Joe Biden assumerà perciò la presidenza americana proprio nel momento in cui le due principali potenze mondiali, come ha scritto lo storico Niall Ferguson su Bloomberg, sono invischiate in una «Seconda guerra fredda» ed è difficile prevedere che direzione prenderà il confronto tra Stati Uniti e Cina.

Ferguson scrive della cauta speranza cinese di moltiplicare i canali di comunicazione ma anche del fatto che, per esempio, la Cina non intende abbandonare il riassorbimento di Hong Kong o fermare l’internamento dei musulmani nella parte occidentale del paese. Biden potrebbe, ovviamente, cercare di calmare le tensioni, ma Ferguson scrive che dovremmo aspettarci una «détente», una distensione, nel senso usato da Henry Kissinger durante la Guerra fredda: «Una via di mezzo tra l’appeasement che egli riteneva avesse condotto alla Seconda guerra mondiale», come dice Ferguson, e «l’aggressività che ha condotto alla Prima guerra mondiale». In altre parole, le due superpotenze mondiali dovranno accontentarsi di imparare a vivere l’una con l’altra, nonostante le differenze.

Biden farà bene a perorare la sua causa su tutta una serie di questioni, scrive Ferguson, ma è importante imparare una lezione dal XX secolo. «Non c’è nessuna ragione di subire decenni di politiche del rischio calcolato, prima di giungere finalmente alla fase di détente di questa guerra fredda», scrive. «Facciamo in modo che la Taiwan nel 2021 non sia la Cuba del 1962, con i semiconduttori (eccellenti, realizzati a Taiwan) nel ruolo dei missili».

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