L’illusione di Donald Trump di acciuffare per i capelli un secondo mandato è finita in niente. Il colpo mortale alla burrascosa presidenza di Trump è arrivato ieri, quasi tre settimane dopo la vittoria di Joe Biden alle elezioni, quando una funzionaria governativa americana finora sconosciuta, Emily Murphy, ha dato il via ufficialmente alla transizione presidenziale. Nel frattempo, le assurde azioni legali del presidente uscente si stanno sgretolando, gli Stati chiave hanno certificando la sua sconfitta elettorale e Biden ha cominciato a scegliere il suo gabinetto.
La transizione libera i fondi a disposizione del presidente eletto per prepararsi a subentrare nell’incarico e obbliga l’amministrazione attuale ad informare il team entrante. Il che, tuttavia, non significa che anche Trump collabori alla transizione. Per salvare la faccia, Trump ha fatto sapere in un tweet di essere stato lui ad ordinare a Murphy di iniziare il trasferimento dei poteri, ma il fatto che rimanga in carica per ancora due mesi, gli lascia un sacco di tempo per tentare di sabotare l’amministrazione Biden.
Trump tenterà sicuramente di rovinare la presidenza di Joe Biden cercando di convincere metà del paese che il nuovo inquilino della Casa Bianca è un occupante abusivo, privo di legittimazione, e darsi così una motivazione per una possibile rivincita nel 2024 tenendo oltretutto mobilitati gli elettori repubblicani (anche in vista dei due seggi della Georgia che andranno al ballottaggio il 5 gennaio e che potrebbero dare ai Democratici il controllo del Senato). Anche se va detto che, contando e ricontando le schede elettorali, salta agli occhi che questa elezione non è stata poi così combattuta. Nel voto popolare, Biden ha un vantaggio di sei milioni di voti. Ha strappato al presidente uscente cinque Stati contesi e si è portato a casa 306 grandi elettori (lasciando Trump a 232): insomma, proprio quello che, ai bei tempi, Trump aveva definito «una valanga».
Tuttavia, Trump potrebbe avere qualche altra sorpresa in serbo prima di lasciare lo Studio Ovale. Dopo che il New York Times ha rivelato che il presidente americano ha sondato i collaboratori sulla possibilità di lanciare un attacco militare contro un sito nucleare iraniano, Karl Schake ha scritto sull’Atlantic che Trump ha ancora «l’autorità per fare un sacco di danni nei giorni in cui rimarrà in carica». Come quasi tutti gli analisti, Schanke ha bocciato non soltanto l’eventualità di un’azione militare, ma anche i risultati di quattro anni di politiche trumpiane di «massima pressione» nei confronti dell’Iran. Inoltre, definendo l’eventuale attacco una cattiva idea che potrebbe scatenare un incendio nella regione (l’anno scorso, un dettagliato saggio di Ilan Goldenberg su Foreign Affairs ha predetto come andrebbero le cose), Christoph Bluth, su The Conversation, si è chiesto se per Trump, colpire l’Iran non sia nient’altro che un modo per impedire al presidente eletto Joe Biden di riattivare l’accordo sul nucleare.
Insomma, Trump resta Trump. E molto probabilmente non ci sarà mai una formale concessione da parte di Trump, che verosimilmente lascerà l’Ufficio Ovale a gennaio insistendo ancora che Biden ha rubato le elezioni. Ma le fondamenta della democrazia americana hanno resistito e gli sono sopravvissute. Si racconta che nel 1787, uscendo dalla Convenzione, Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori della democrazia americana, venne fermato da una signora, che gli chiese con fare inquisitorio «Dunque, dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?». Franklin rispose compassato: «Una repubblica, signora, se saprete conservarla». Quest’anno, i funzionari statali e locali ed i giudici che hanno respinto i reiterati tentativi di Trump di invalidare milioni di voti, hanno fatto proprio questo.
Tutto ciò ci ricorda quanta influenza il sistema di governo americano attribuisca a persone diverse dal presidente. Non per caso, il recentissimo libro (che raccomando) di Francesco Clementi e Gianluca Passarelli, «Eleggere il Presidente», che analizza il complesso meccanismo di elezione presidenziale a partire dalla lunga presidenza di Franklin Delano Roosevelt, porta alla luce la rete di istituzioni «che fanno del presidente, soltanto uno dei nodi, seppure evidentemente cruciale, del sistema politico-istituzionale americano».
A volte, il presidente può sembrare onnipotente, e la presidenza di Trump ha cercato spesso di farlo credere. Perfino i membri del Congresso, e specialmente i repubblicani, negli ultimi quattro anni sostenevano di non essere in grado di modificare il comportamento di Trump. Ma il sistema di governo degli Stati Uniti non funziona così. Come ha detto al New York Times, il politologo della Georgetown University Matt Glassman: «Il presidente si misura con numerosi attori – il Congresso, le Corti, i gruppi di interesse, le nomine politiche nei dipartimenti e nelle agenzie e i civil servants – per influire sulle politiche pubbliche. Per convincere gli altri attori politici che è nel loro interesse stare al gioco e assecondarlo, o almeno non ostacolarlo, il presidente deve contare sulla sua abilità informale».
Quando un presidente non riesce a farlo, spesso rimane paralizzato. Ed è quel che è successo a Trump. Centinaia di funzionari pubblici locali si sono rifiutati di sottomettersi alla sua volontà. Negli ultimi giorni, diversi congressman repubblicani gli hanno detto pubblicamente che doveva prendere atto della realtà (molti altri si sono mostrati compiacenti, dando credito alle sue bugie, senza tuttavia muovere un dito in supporto ai suoi sforzi di cambiare il risultato). Anche il mondo degli affari (tradizionale alleato dei repubblicani), gli ha detto di avviare la transizione. Alla fine, Trump ha fatto come gli hanno detto di fare.