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In piedi

Il consueto messaggio di fine anno del Capo dello Stato quest’anno ha perso qualcosa della sua provata consuetudine. Il Presidente ha parlato in piedi per la prima volta nella storia repubblicana. Il contenuto del messaggio ha detto molte cose, sul suo personale futuro politico e sul fatto che sia giunto il tempo dei costruttori e finito quello dei demolitori –o rottamatori, qual dir si voglia. Inviti, sollecitazioni e prese di posizione hanno occupato in questi giorni gli scritti dei decodificatori di professione.

Fatto sta che tutto ciò che Sergio Mattarella ha detto, lo ha detto in piedi. La sua postura credo abbia raccontato, più del messaggio, qualcosa di sé e qualcosa di noi. Stare in piedi è indice di precarietà, di fretta, di allerta. Rimanda alla Pasqua del popolo ebraico, il pasto consumato in fretta, coi calzari ai piedi, mentre il paese viene colpito da un flagello. Lo stare in piedi dice di non cullarsi, di stare pronti. E questo lo ha detto a tutti, il Presidente, ché dobbiamo reagire alla crisi che c’è piovuta addosso, al disincanto. Non restare fermi ma collettivamente assumerci la responsabilità di noi stessi e dell’altro accanto a noi –vaccinarsi questo è: sfidare le narrazioni ignoranti e muoversi a tutela della comunità.

Un’altra cosa dice lo stare in piedi di un uomo politico, e cioè che egli per primo è disposto a cambiare, a mettere in discussione se stesso e il ruolo che ricopre. Dice la vicinanza al Paese, il rigetto del privilegio in un momento in cui la comunità che rappresenta è piagata. È il rifiuto di accomodarsi in poltrona, che peraltro come pochi altri egli merita di occupare, è la vigilanza cui la politica è chiamata. È già in piedi il Presidente, pronto a partecipare alla ricostruzione per tutto il tempo rimanente del mandato.

Quarantuno anni fa gli moriva tra le braccia il fratello, vittima della mafia, colpevole di non aver voluto restare seduto a sorbire i privilegi spettanti al Presidente della regione siciliana. Si chiamava Piersanti.

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