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La questione democratica

Incazzat*, avvilit*, o forse tutt’e due. Così ci sentiamo in molti per il fatto che i tre ministri del Pd nel governo Draghi siano tutti uomini. Ora si parla di una “questione femminile”. Va bene, d’accordo. Ma in verità quella scelta, sbagliata e staccata dalla realtà, è il sintomo di una “questione democratica”: di come il Pd vive la selezione politica e la sua funzione di partito nazionale. Il problema non nasce oggi. Segretario, vicesegretario, capigruppo a Camera e Senato, anche il presidente del partito prima della nomina di Gentiloni in Europa: tutti uomini. E non è solo un tema di donne. Il Pd non sa più selezionare classi dirigenti senza usare una logica correntizia.

Le correnti non sono l’unico problema, si dice. Certo, ci mancherebbe. Le correnti sono utili quando si basano su idee e culture politiche, fanno vivere il pluralismo e aiutano la partecipazione democratica in una grande organizzazione di massa. Ma è ormai da tanto che le nostre si sono ridotte a filiere di potere. Il problema quindi non sono le correnti, ma queste correnti, questo Pd. Anche quando scegliamo i commissari nelle regioni o nelle federazioni provinciali (ruoli a cui nessuno ambisce), lo facciamo in base al Cencelli delle correnti: perché qualcuno ha paura che una minima deviazione da quella logica potrebbe aprire il campo a giovani, donne, movimenti sociali, esperienze e competenze che non arrivano dalla cooptazione oligarchica.

Quando i partiti erano comunità cementate da una missione collettiva — pur con tutte le asprezze della lotta politica interna che c’erano anche allora e sempre ci saranno — si selezionavano persone diverse per ruoli diversi in base alle loro esperienze e capacità, si facevano crescere dirigenti testandoli. C’era una selezione politica basata su un’idea di “servizio”, sulla capacità di creare valore per la propria comunità costruendo idee, soluzioni, partecipazione e consenso (parentesi per i più svagati: no, non è un caso che abbia usato la parola “servizio” e non “merito”). Invece, oggi, la prima preoccupazione è tarpare le ali a qualsiasi persona che si muova fuori da logiche correntizie.

La questione democratica non ha effetti perversi solo sulla parità di genere, ma su tutte le dimensioni del nostro stare insieme. Prendiamo il rapporto con la leadership. Quando si sentono nell’angolo, le nostre filiere di potere si affidano a leadership muscolari per cavalcarne il consenso, salvo poi impedirgli di mettere in discussione certi equilibri e scaricarle al primo giro di giostra. Dal canto loro, i leader di turno pensano di usare quelle filiere per prendersi il partito con l’idea di ridimensionarle dopo, finendo invece per essere divorati dalla tigre che pensavano di cavalcare.

Prendiamo, ancora, il rapporto con l’unità del partito, tanto cara, si dice, ai nostri militanti. È giusto che un partito sia unito intorno a valori e obiettivi forti, pur facendo vivere il pluralismo delle idee (e delle storie) al suo interno. Ma l’unità di questo Pd non è quasi mai una sintesi di idee: è un patto di sindacato tra filiere di potere che pensano a garantirsi la sopravvivenza. L’unità è vissuta come collusione oligarchica, non come sintesi democratica: sta qui la nostra questione democratica.

Se questa analisi ha qualche elemento di verità, anche la lotta per affermare una vera parità di genere deve tenerne conto. Sul piano tattico e su quello strategico. Quando ho criticato a caldo l’errore di tre ministri uomini proponendo che adesso tutti i vice e sottosegretari Pd siano donne, qualcuno mi ha criticato perché i “contentini” sarebbero ancora più scandalosi, perché la toppa sarebbe peggiore del buco. Non avendo fatto io il buco, mi sarei potuto limitare a criticarlo senza proporre toppe, ma quella proposta non aveva nessun intento risarcitorio, anzi.

In politica, quando subisci una scelta sbagliata non firmi appelli, ma capisci se la reazione a quell’errore può aprire un varco per destrutturarne le cause. Ora scegliendo solo donne si limiterebbero spartizioni già in atto, e gli uomini già in fila per spartirsi quei posti su logiche correntizie riceverebbero il messaggio che quelle logiche non li garantiscono più, che si è superato il limite e tocca cambiare (e tra parentesi: altro che contentino, si tratta di posti chiave).

Il fatto che dietro a quella proposta non ci siano intenti risarcitori, ma la voglia di cambiare metodo destrutturando quello che c’è e non funziona, per me è evidente dal fatto che non può essere confusa con la proposta, avanzata da altri, di nominare un vicesegretario donna. Questa sì che sarebbe una toppa peggiore del buco, se fosse fatta solo perché serve una figurina al femminile.

Nella nostra comunità, ci sono politiche di primo piano che hanno espresso con coraggio e intelligenza una linea politica molto diversa dal patto di sindacato delle nostre correnti, pagandone un prezzo. Se si vuole dare un segnale che si è capito l’errore e si vuole cambiare questo Pd, si dica apertamente che si vuole cambiare linea. I nomi — e ce ne sono tanti di valore al femminile — sono una conseguenza della linea politica, non viceversa.

Questo mi porta all’ultimo punto, legato alla strategia non alla tattica. In un’intervista pre-governo Draghi mi era capitato di proporre questa equazione: leadership plurali e inclusive uguale parità di genere. La scorciatoia del leader carismatico l’abbiamo già provata varie volte e abbiamo visto come è andata. Non è un caso che ogni volta che si parli di leadership forti, muscolari, alla fine ci si riferisca sempre a uomini. Se invece cambiassimo metodo e iniziassimo a parlare un po’ più di idee, di valori e di leadership plurali, di sicuro spunterebbe anche qualche nome femminile. E sarebbe un bene per il Pd e per il Paese.

Su questo dovrebbe concentrarsi chi ha a cuore la parità di genere: sulla costruzione di una coalizione di donne e uomini intorno a una visione diversa del nostro stare insieme. Non abbiamo bisogno di una corrente rosa, ma di un nuovo Pd. Per questo, è giusta la richiesta avanzata da molte affinché se ne parli in una direzione del Pd e non solo nella Conferenza delle donne. Anzi, questa richiesta quella Conferenza avrebbe potuto anticiparla, convocandosi in forma aperta a tutti i membri della direzione — uomini e donne — interessati a questa discussione.

Per ripetermi: non è una questione femminile, ma una questione democratica. E non sono solo le donne a pagarne il prezzo. Chi si ribella a quella logica, a Roma o nei territori, paga un prezzo salato. Non si contano le energie, la voglia di fare politica e le competenze che ci siamo persi per strada perché hanno sbattuto la testa contro il muro di gomma di un Pd chiuso e oligarchico. Ci sono interi territori abbandonati dal nostro partito, con commissari e dirigenti che nessuno vede e che garantiscono soltanto il patto oligarchico tra gruppi dirigenti, tenendo lontane le energie che si muovono nella società.

Nel 2018, tanti elettori hanno votato 5 Stelle non perché non vedevano l’ora di mettersi in fila per il reddito di cittadinanza, ma perché non ne potevano più di stare in fila nel rapporto clientelare con una politica che spesso era anche la nostra. Quei metodi sono ancora tra noi, nonostante Renzi avesse promesso di “rottamarli” e Zingaretti di “superarli”. Nessuno dei due ce l’ha fatta. Forse, perché non può essere un leader a farlo. Serve uno sforzo collettivo, coerente, diffuso, plurale. Serve una discussione su come rifondare il modo in cui facciamo politica. Non vogliamo chiamarlo congresso? Chiamiamolo big bang. Ma facciamolo presto.

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