di Luca Ristagno e Flavio Fucà
Tre sono le dinamiche principali che, a nostro avviso, attraversano il panorama attuale delle relazioni internazionali: antagonismo fra le grandi potenze, diseguaglianze fra gli attori internazionali e delegittimazione delle istituzioni sovranazionali. Dinamiche queste già presenti nel sistema, ma le cui conseguenze vengono rese manifeste in maniera lampante dalla pandemia in corso, che per definizione rappresenta un problema di interesse collettivo, le cui conseguenze e soluzioni travalicano i confini nazionali e sono al di là delle possibilità di un singolo Stato.
L’11 marzo 2020, il Direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, annuncia che l’epidemia di SARS-Cov-2 (Covid-19) è ormai presente in più di 114 Stati. Da allora, come ha reagito la comunità internazionale?
La diffusione del virus ha mostrato, ancora una volta, che gli attori del sistema politico internazionale sono tuttora molto lontani dall’essere coerenti, collaborativi e uniti in uno sforzo collettivo. Una prima avvisaglia si è avuta già in sede di comitato di emergenza OMS, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, con l’enorme ritardo accumulato nel riconoscere l’emergenza internazionale e la conseguente attivazione tempestiva di meccanismi di reazione comuni, a causa di divisioni e sfiducia tra gli Stati Membri.
La fase di ricerca scientifica sul virus ha sicuramente visto finora, nei limiti della necessità, un atteggiamento collaborativo tra gli Stati. Tuttavia, sono stati i Paesi con le economie più avanzate a beneficiare maggiormente dei risultati.
Così, data la scarsità della risorsa-vaccino si è realizzata ciò che viene definita “la diplomazia dei vaccini”: la fornitura del siero e dei presidi sanitari diventano strumento di pressione diplomatica sia per rafforzare la propria presenza ed autorità politica sui propri alleati (USA), sia per erodere il consenso dell’avversario all’interno della coalizione internazionale opposta (Russia, Cina).
Alcune tra le maggiori conseguenze negative della pandemia e della mancata collaborazione ricadono sugli attori meno influenti dell’arena internazionale: i Paesi meno sviluppati e non occidentali. Come denunciato dal Segretario dell’ONU Antonio Gutierrez, a febbraio 2021 solamente 10 Paesi avevano somministrato il 75% di tutti i vaccini prodotti globalmente, mentre circa 130 Paesi non avevano ricevuto neanche una singola dose.
Ad oggi, la situazione non è variata di molto e gli USA si affermano in prima posizione per il totale dosi somministrate (93 milioni) con a seguito Cina (52 milioni), India (24 milioni), UK (23 milioni), Brasile (11 milioni), Turchia (10 milioni), Israele (8 milioni), Germania (8 milioni), Russia (6 milioni) e Emirati Arabi Uniti (6 milioni).
Gli altri Stati come il Sudafrica (107 mila dosi totali somministrate, 0,18% rispetto alla popolazione di 55 milioni), nel silenzio generale, soffrono di notevoli mancanze endemiche e di gap strutturali in termini di disponibilità di risorse, infrastrutture, servizi, alle quali si aggiunge l’irrilevante peso politico ed economico (ma non demografico) ricoperto nelle cruciali sedi internazionali, come all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), dove si tengono accesi dibattiti in merito ai brevetti e alla commercializzazione dei vaccini anti-Covid.
Due cose risultano a questo punto chiare: in primo luogo che la lotta al Covid-19 si inserisce, come elemento tattico, perno di avvicinamenti e allontanamenti tra gli Stati della comunità internazionale, nel confronto strategico per la l’egemonia globale; in secondo luogo che l’OMS, autorità (de)legittimata e cornice dello scontro, sconta (come OMC e altre organizzazioni) la sua posizione infelice tra “l’incudine cinese” e “il martello americano”, pagandone il prezzo in termini di capacità decisionale ed efficacia nella tutela dell’interesse collettivo. Una condizione quest’ultima che potrebbe tornare a presentarci nuovamente il conto in futuro.