Dagli anni ‘90 in Italia, ciclicamente, si torna a parlare di riforma della normativa sull’acquisto della cittadinanza. Questa volta è stato il neo-segretario del PD Enrico Letta a rispolverare la questione intorno allo ius soli ed allo ius culturae, scatenando sciami di argomentazioni sia a favore che contrarie.
Ma procediamo con ordine. Cosa si intende con ius soli e ius sanguinis? Si tratta di due istituti giuridici per l’acquisto della cittadinanza, cioè per essere considerati titolari di diritti e doveri verso la società e lo Stato; essere cittadini, ovvero far parte di una comunità.
Decidere sul diritto di cittadinanza è ancora dominio riservato dello Stato. In Italia la legislazione vigente predilige l’acquisizione tramite linea di sangue: se si nasce o si è adottati da cittadini italiani.
Tuttavia, la L.91/1992, che regola la materia, prevede una possibilità residuale di iure soli per i figli di apolidi, di genitori ignoti o impossibilitati a trasmettere la cittadinanza al figlio. Per gli stranieri che invece arrivano nel territorio italiano occorre fare richiesta al Ministero dell’Interno e dimostrare il possesso di alcuni requisiti, tra i quali: residenza continuativa di 10 anni e un impiego con cui mantenersi.
Sul piano diametralmente opposto allo ius sanguinis vi è il concetto di ius soli, adottato da molti Paesi in forma pura, prevalentemente nel continente americano, o condizionata, come in Sudafrica.
Parliamo di ius soli in forma pura quando ci riferiamo ad una normativa che prevede, come condizione prevalente e indipendente per l’acquisto della cittadinanza, l’essere nati all’interno del territorio nazionale dello Stato; parliamo di forma condizionata quando invece vengono poste, affianco al requisito di territorialità, ulteriori condizioni che possono variare a seconda dello Stato.
In Italia, le ultime proposte di riforma della cittadinanza (focalizzate sulla figura degli stranieri di seconda generazione) sono orientate verso l’introduzione di uno ius soli temperato da elementi di ius culturae: istituto giuridico che prevede la possibilità di acquisire la cittadinanza per un minore, che abbia regolarmente frequentato uno o più percorsi di studio o formazione professionale nella penisola.
Il requisito di territorialità e di cultura prevale su sangue e discendenza.
Una cosa è bene ribadire però, definirsi cittadini significa anche marcare una linea di confine tra chi è come noi e sta dentro la comunità e chi invece non lo è e rimane fuori, tra chi partecipa alla vita politica e chi no, “tra chi è amico e chi nemico”, come direbbe Carl Schmitt.
Guardando a quel che succede da anni nelle periferie di tutta Europa, dove le diseguaglianze, la marginalità e l’approccio securitario favoriscono lo sviluppo di enclave, di ideologie e radicalismi identitari, introdurre una riforma della cittadinanza che apra allo ius soli e all’elemento culturale (come fattore potenzialmente aggregatore) appare sempre più necessario, se si vuole rispondere alle esigenze di giustizia ed equità di migliaia di esseri umani e se si vuole salvaguardare, nel lungo termine, la solidità delle basi del pluralismo, del costituzionalismo, dello stato di diritto e della democrazia.