Nelle chiamate di gruppo, con le mie amiche, che fanno da surrogato agli incontri in presenza, il “Tu l’hai fatto?” ha sostituito il “Come stai? Ciao, come va?” ed è l’unica volta che con rammarico riconosciamo di non essere abbastanza vecchie, ottantenni o ultra.
All’inizio del piano vaccinale ho telefonato al mio medico di base per chiedere come dovevo procedere. Quanti anni ha? 73, Ma è una ragazza, stiamo vaccinando gli over 80. Per mia fortuna (?) rientro però in una categoria di fragili e la prima dose l’ho fatta.
L’hai fatta? Fortunata te, ribadisce Maria Teresa, che ha solo 76 anni e nessuna grave patologia presente o pregressa da sfoggiare. Chissà se valgono le coliche renali che ho avuto. Può darsi, e non hai il colesterolo e la pressione alta? Non contano, ci voleva una bella polmonite o un qualsiasi tumore. Peccato! Peccato!
Dopo il “Tu l’hai fatto?” seguito dall’affermativo, si dispiega il dibattito su “Ma quale hai fatto?” se dici Astrazeneca sei guardato con sufficienza, quasi un proletario della sanità, sei hai fatto Pfizer non c’è male, ma se hai fatto Moderna sei guardato con considerazione “Quello del Presidente”.
La terza è, tradotta in italiano aulico, “C’era casino?” La solita disorganizzazione, assembramento, fila, confusione. Sembrava di essere in Germania, ordine, disciplina, precisione al minuto. Solo una breve attesa, una fila distanziata, medici gentili. Piacevole, in tutto questo isolamento finalmente ci si ritrova con un po’ di gente, fai due chiacchiere nel quarto d’ora di osservazione. La solita burocrazia italiana.
E da qui sorge obbligatoria la domanda quarta “Ma hai visto quanti moduli si devono compilare?” Mi ci è voluta una serata. Io mi sono fatta aiutare dai nipotini che a sbarrare le caselle se ne intendono. Peggio di un esame. Per fortuna era tutto giusto.
La quinta, “Hai avuto qualche reazione?” Nessuna, tranne naturalmente il dolore al braccio. Io sono stata malissimo, febbre, nausea, capogiri. Io solo un giorno di debolezza. Io ancora non mi riprendo. Io non me ne sono nemmeno accorta. Per poco non morivo.
E giù una serie di dotte diagnosi Dipende dal bagaglio genetico. È questione di suggestione. È differente secondo il tipo di vaccino. Incide andare soggetti ai raffreddori. È influenzata dalla latitudine. Nasce dalle difese immunitarie acquisite da piccoli. Da come ti trovi in quei giorni. Dall’essere vegani. Resto del parere che se qualcosa può andare storto lo farà, chiosa Maria Teresa fanatica discepola di Murphy.
Segue la domanda provocatoria “Ma voi ai furbetti che fareste?” E qui dipende dagli umori, dallo sfinimento, dalla preparazione giuridica, dalla visione di vita, dalla fantasia, dal tempo che ci resta prima di preparare la cena.
Ma la domanda vera, con l’aggiunta di un sospiro, è sempre la stessa da più di un anno “Quando finirà?” Nell’attesa che finirà, perché finirà, mi faccio una bella tisana rilassante, così mi metto tranquilla in poltrona aspettando le reazioni che verranno o magari no, e per restare in tema rileggo un bel libro che, guarda caso, mi ha regalato un giovane medico, “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, non fosse altro che per l’epigrafe “Parlare delle malattie è un intrattenimento da Mille e una notte” (W. Osler)
Patologia: lieve disturbo istrionico della personalità con tendenza a pretendere più cura degli altri.
Terapia: personalissimo vaccino di fiducia sotto forma di tisana alle erbe rilassanti accompagnato dalla lettura dei numerosi casi clinici narrati da Oliver Sacks. Nel libro i pazienti si raccontano al loro medico e lui raccoglie queste storie non come casi clinici, ma come avventure, perché fra le tante avventure che la vita riserva c’è anche quella nel misterioso mondo della malattia.