/o·sta·tì·vo/: “Che costituisce ostacolo, che è d’impedimento”. Dicesi di errore, causa. O di ergastolo. /er·gà·sto·lo/: “Pena detentiva consistente nella privazione della libertà personale per tutta la durata della vita”.
L’ergastolo ostativo, ossia quel “fine pena mai” che non ammette remissioni o sconti è sempre stato un filo ad alta tensione della politica e del diritto italiani. Che una pena senza fine fosse inconciliabile con lo scopo rieducativo che la Costituzione assegna alla pena, perfino a quella carceraria, è semplice osservazione di buon senso. Per il solo fatto di ammettere la rieducazione del condannato, la pena non può non avere fine. Ragion per cui, fino alla fine degli anni ’80, la pena dell’ergastolo era stata destinataria di provvedimenti normativi che ne avevano infine eroso l’irrimediabilità. Pian piano, lungo un percorso attentamente vigilato, anche l’ergastolano poteva essere riammesso al consesso civile.
Dai primi anni ’90, però, questa tendenza fu bruscamente invertita, e non per capriccio: la violenza frontale della criminalità organizzata indusse a pensare che non tutti i detenuti potessero, indipendentemente dal crimine commesso, godere dei benefici della rieducazione. In altri termini, la natura di certi reati era tanto grave da far ritenere che chi li avesse commessi non fosse rieducabile. Tecnicamente si introduceva una presunzione legale assoluta di pericolosità sociale. Se t’eri macchiato di certi reati, in primis quelli di criminalità organizzata e terrorismo, le porte del carcere non ti si sarebbero aperte mai più.
A meno che. Ben consapevole del concreto rischio di incostituzionalità di una norma che escludesse in certi casi, per quanto gravi, ogni pur piccolo barlume di ravvedimento del reo, la legge assicurava, ed assicura ancora oggi, tre modalità per superare l’impedimento: la collaborazione con la giustizia (intesa come contributo ad impedire ulteriori reati o ad acclarare quelli già commessi), la collaborazione oggettivamente irrilevante (pur sincero, il contributo reso dal reo ha scarso o nullo valore probatorio) o la collaborazione impossibile (la sentenza di condanna aveva già affermato che il reo non aveva svolto, nel crimine, un ruolo idoneo a conoscere elementi rilevanti). Pur nella potenziale apertura, si tratta comunque di una strada non semplice, sottoposta a numerose altre condizioni, e che comunque comincia ad aprire le porte del carcere, di norma, dopo più di venticinque anni di detenzione.
Anche in questi termini, però, la questione di principio è sempre rimasta intatta: è ammissibile, in un sistema che stabilisce (nella sua legge fondamentale!) che la pena inflitta al colpevole debba tendere alla sua rieducazione, che si concepiscano atti (pur brutali, disumani) per i quali quella tensione non possa più valere e, se proprio valere debba, lo faccia sotto condizione? Non che sia irragionevole pretendere dal reo un ravvedimento, ché questo è comunque normale condizione perché le porte del carcere gli si aprano a fronte di una condanna senza fine, quale che sia il reato commesso.
Il dubbio è se il ravvedimento debba avvenire secondo certe condizioni volute da uno Stato che, altrove, non sottopone a condizione alcuna la finalità rieducativa della pena, se non appunto al conseguimento della stessa rieducazione. Ha forse il costituente puntato troppo in alto rispetto alla bassezza degli uomini? O è stato il legislatore, pur in una fase emergenziale, a non essersi mostrato all’altezza del primo?
La questione è infine giunta al suo giudice naturale, la Corte Costituzionale, che pochi giorni fa ha rilasciato un comunicato inequivocabile: l’ergastolo cosiddetto ostativo è incompatibile con la Costituzione della Repubblica.
Detto ciò, in anticipo sulla pubblicazione dell’ordinanza che argomenterà nel merito, la Corte ha annunciato di voler prendere tempo: pur potendo usare la scure e cacciare via dall’ordinamento quello che hanno acclarato contrastare con la Costituzione, i giudici non hanno sottovalutato la delicatezza della questione e i numerosi distinguo che legittimamente si levano quando si tratti di proclamare rieducato chi si sia macchiato di crimini ignobili. Per questa ragione ha stabilito che la sua scure calerà sì, ma solo a maggio dell’anno a venire.
In tal modo il Parlamento avrà un anno di tempo per evitarla trovando soluzioni adeguate a contemperare le esigenze di giustizia e sicurezza con quelle di rieducazione. Saranno i rappresentanti della nazione, com’è giusto che sia, a trovare il bandolo della matassa. Saranno loro a dover essere all’altezza dei padri costituenti. Con la sola avvertenza che il tasso di saggezza dell’attuale Parlamento potrebbe non corrispondere per intero a chi gli stessi scranni frequentò ai tempi di quell’altra, più sobria, Assemblea.